Niccolò Ammaniti La sera andavamo da Bernardo

di Clotilde Veltri
Un salone «sempre ombreggiato e silenzioso» che la sera si animava per far sprofondare nei suoi divani colorati e comodissimi, invecchiati dallo scorrere del tempo, un universo variegato e difforme di amici e parenti, di attori e produttori, scrittori e sceneggiatori «di solito più giovani» che Bernardo «voleva intorno a sé per ascoltarne i racconti, captare sensazioni, aprire dibattiti». Lui, il regista geniale intrappolato nella sedia a rotelle, provato nel fisico dalla lunga malattia che lo spegnerà nel 2018, meticoloso nell’orchestrare e dirigere — come fossero un ultimo film — le serate conviviali durante le quali «passava da una persona all’altra e si faceva intrattenere e ci intratteneva con aneddoti della sua vita, di quando andava da qualche parte nel mondo, raccontando improvvisamente eventi ai quali sembrava impossibile avesse partecipato vedendolo recluso in quella casa». Lo scrittore Niccolò Ammaniti per dieci anni ha avuto «il grande privilegio» dell’amicizia di Bernardo Bertolucci e ne ha frequentato il mondo ormai quasi esclusivamente ridotto all’appartamento romano. Una sorta di “grande utero accogliente” secondo la definizione dello stesso regista.
Dunque la sera andavate in via della Lungara.
«Bernardo aveva moltissimi amici che lo venivano a trovare da ogni parte del mondo, conoscenti inglesi di Clare, il fratello Giuseppe, sua nipote, gli attori, io stesso ho trascorso serate con Richard Gere e il produttore cinematografico Jeremy Thomas, c’erano persone importanti ma anche gente del quartiere, gli sceneggiatori Francesca Marciano, Giovanni Mastrangelo, Jacopo Quadri. Un aspetto meraviglioso di Bernardo era che amava conversare dei fatti degli altri più che dei propri, era curioso, gli piaceva anche il pettegolezzo, adorava le storie di amanti e poi però non si teneva nulla e raccontava tutto a tutti diventando pericoloso ( ride) ».
Erano grandi tavolate di amici…
«No, erano tavole di approccio, mai di amici. Bernardo aveva bisogno di mettere insieme persone che non si conoscevano tra loro, che potevano creare un dibattito, una chiacchiera. E poi la casa era organizzata proprio per ospitare, Bernardo e sua moglie Clare non cucinavano, ma dettavano il menu, ne avevano l’assoluto controllo, e si mangiavano cose buonissime, non particolarmente complicate o strane, per esempio ricordo dei fagiolini cotti pochissimo con la menta o il pollo marocchino, c’erano mozzarelle scelte con cura. Erano capaci di farti percepire che dietro ogni pietanza c’era un pensiero complesso che ti riguardava. E il cibo non era mai troppo, anzi andavi via sempre un po’ affamato perché la loro era un’ospitalità non eccessiva, garbata tanto che ti vergognavi di chiedere una seconda porzione. Si doveva mangiare poco, perché è così che si mangia. Prima di tutto però, quando arrivavi, si beveva: nell’ultimo periodo Bernardo aveva scoperto il Moscow mule e allora si facevano grandi Moscow mule e tutti bevevamo i Moscow mule».
Lei era piuttosto giovane quando è entrato per la prima volta in quella casa…
«Sì, lui ti diceva: ho invitato delle persone vieni, allora sapevi che la sera ti era richiesta una performance.
Bernardo si metteva a capo tavola e tutti potevano esprimersi, così sentivo di dover in qualche dire delle cose alle quali non credevo ma che fossero un po’ parossistiche per mostrare che avevo carattere. In più Bernardo aveva questa passione per la psicoanalisi e tendeva a psicoanalizzarti…».
C’è un discreto gioco di seduzione in tutto questo.
«Lui seduceva tutti, aveva un tono molto pacato, molto divertito e tranquillo e questo aspetto faceva sì che tutti ne avvertissero la presenza, tutto durante queste cene girava intorno a lui, non ci si poteva mai dimenticare di Bernardo».
Voi avete lavorato insieme alla sceneggiatura di “Io e te”, tratta da un suo racconto e che poi Bertolucci ha diretto. Come erano organizzate le giornate?
«C’era un rituale da rispettare perché i tempi li decideva Bernardo e quelli del lavoro erano totalmente separati da quelli dell’amicizia. Quando si arrivava nella casa, lui veniva avvisato e sistemato sulla carrozzina e dalle stanze private condotto nel salone. Così all’improvviso, come per magia, appariva ed era sempre molto affettuoso, come se non si aspettasse di vederti lì. Poi si sdraiava sulla chaise longue della Frau, bellissima, che gli evitava il mal di schiena e, mentre lavoravamo, sembrava che stesse dallo psicologo con la testa rivolta al soffitto e noi seduti lì accanto sui divani».
Si narra di grandi proiezioni serali per gli intimi…
«È vero, organizzava proiezioni di film molto antichi. Una volta mi ha fatto vedere una pellicola indiana degli anni ’50 che si intitola Il salone del te. Di solito dopo un quarto d’ora si addormentava e noi ci guardavamo queste specie di bombardoni in silenzio fino a che lui si rianimava facendo finta di aver visto tutto… A un certo punto anche Bernardo è stato sedotto dalle serie tv. Ce le aveva in anteprima perché era giurato agli Oscar, ed era impazzito per Breaking Bad ».
Aveva visto anche il “suo” Miracolo, vero?
«Mi chiese una proiezione in anteprima e io gli portati il blu ray e dopo mi disse che gli era piaciuto. Ovviamente ci vedeva dentro un sacco di cose che io non sapevo ci fossero, ma questa era una sua prerogativa».
La casa è disseminata di foto del padre Attilio di cui Bertolucci in un’intervista a Dacia Maraini diceva che aveva “un odore di mandorle amare”. Le parlava di suo padre, delle sue origini?
«Amaro è anche l’odore del cianuro che infatti ha un sentore di mandorle… Ovviamente sto interpretando. Il padre era motivo di conversazione, ricordava spesso di quando era piccolo, di Parma. La sua memoria infantile era molto accentuata».
Altra presenza costante: i cappelli, veri e propri feticci.
«Quando usciva ne aveva sempre di bellissimi e poi nell’ultimo periodo si era appassionato alle scarpe da ginnastica, sempre moderne e coloratissime, rosse, verdi, gialle. Gli piaceva avere dei vezzi, soprattutto perché sulla sedia a rotelle non appariva nella sua grandezza e bellezza. Era come imprigionato in quel piccolo spazio».
Cosa le rimane dell’amicizia con Bertolucci?
«Un certo modo di stare al mondo, di relazionarsi agli altri ed è l’aspetto che ha meno a che fare con la sua unicità di regista. Era talmente attento che ti sentivi non adeguato alle sue aspettative, quasi eri costretto un po’ a romanzare per poterlo interessare, anche se alla fine si trattava solo di una tua percezione. Poi c’era l’eleganza, la capacità di trattenersi, il modo in cui affrontava le cose con serietà, senza paura. Era fantastico. E per finire quello che lo rende più speciale ai miei occhi è che in tanti anni non l’ho mai sentito lamentarsi di un corpo che non funzionava più, che lo faceva soffrire moltissimo: ti chiedeva gentilmente se potevi andare via perché non si sentiva bene e lo faceva col sorriso sulle labbra, con quella gentilezza che filtrava dagli occhi e che era segno di una grande educazione interiore, di un grande rigore. E quella capacità di parlare senza mai accendersi, con pacatezza, era propria di un uomo del Novecento. E penso che con lui si sia persa per sempre».
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