Nove mostre per il progresso

 

 

Un progresso che (al pari del coraggio, della speranza, della fiducia) è anche una questione d’arte. Il Festival della Milanesiana (13 giugno-6 agosto) , ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi, sceglie ancora una volta l’arte per declinare il tema dell’edizione 2021 (il progresso, appunto).

Era successo già negli anni precedenti quando accanto alla letteratura, alla musica, al cinema, alla scienza, alla filosofia, al teatro, al diritto, all’economia, allo sport era stata sempre l’arte a raccontare il coraggio, la speranza, la fiducia (temi delle precedenti edizioni). Un programma che, per il 2021, si traduce in 9 mostre (per 8 città) sempre e comunque vicinissime (sia pure con tecniche, stili, ispirazioni differenti) alle ragioni della Milanesiana.

Alla Reggia di Venaria, Torino, va così in scena un altro Simone Cristicchi (1977), diverso da quello più noto (il cantautore, lo scrittore, l’attore). Che si presenta qui nella veste finora inedita di artista visivo. Appassionato di fumetti sin da adolescente, poi disegnatore e allievo del grande Jacovitti da cui ha imparato l’arte del disegno a china, Cristicchi propone con Happy Sketches/ Natura Umana, trenta tavole «che catturano la varietà della natura umana, i volti, i gesti, gli umori: un atlante dei sentimenti fantasioso, poetico, divertente, con un tratto, che rimandano a Francisco Ibáñez e Jacovitti».

Ironia e sagacia sono invece il cardine della visione di Giuseppe Leone (1936), in mostra a Bergamo, alla Galleria Ceribelli, con Metafore: fotografo della Sicilia e dei suoi scrittori, amico di Sciascia e Bufalino, affascinato dalla narrazione dei matrimoni ai quali il padre organista lo invitava ad assistere da bambino, racconta un’isola fuori dal tempo, affiancando i volti mostruosi dei capolavori del Barocco agli sguardi rubati di persone comuni, testimoni di una bellezza che è sempre al presente, tra noi.

Esther Mahlangu (1936), cresciuta nel Sudafrica dell’apartheid, è la prima artista femminile ad aver realizzato una Bmw Art Car. Prima di lei, alla Milanesiana c’erano state quelle di Alexander Calder, Jenny Holzer e di Andy Warhol mentre la sua ricerca ha reinterpretato una Serie 5 utilizzando una fantasia chiamata Ndebele, ispirata alla tradizione tribale di arredare la casa, un sapere trasmesso di generazione in generazione e soltanto tra le donne. A 30 anni dalla creazione, questa Bmw Art Car (esposta a Milano, al Bmw Urban Store) resta ancora un simbolo di integrazione e rinascita, in un connubio unico tra arte, storia e tecnologia, «con un sofisticato e ossessivo linguaggio di astrazioni geometriche che diventa sguardo di distacco, orientato al futuro».

Una mostra in due atti e due scoperte è quella che alla Villa Reale di Monza affianca due fotografi felicemente inattesi. Da una parte: Gianfranco Ferroni (1927-2001), celebrato fondatore del movimento della Metacosa e protagonista sempre di questa Milanesiana anche una personale alla Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno dedicata alla sua opera pittorica (Gianfranco Ferroni. Metafisica di una stanza). Dall’altra: Vittorio Rosina (1915-2006), con la sua storia e le sue fotografie appena riemerse da uno scatolone con vecchi negativi. Da una parte: 15 scatti che riportano in primo piano la dedizione di Ferroni per la fotografia; dall’altra, come accaduto con Vivian Maier, un patrimonio di immagini ritrovate che rivelano un talento fotografico sconosciuto.

Adelchi Riccardo Mantovani (1942) con la sua Sensazionale nascita di Venere (1995) è uno dei protagonisti della mostra Botticelli. Il suo tempo. E il nostro tempo in corso al Mart di Rovereto. A Bormio, nella sede della Banca Popolare di Sondrio, Mantovani (cui verrà consegnato il premio Rosa d’oro della Milanesiana per l’arte) colloca la sua campagna padana, una campagna forse mai vista, forse solo sognata. Una campagna fatta di pioppi, di casolari perduti nella foschia invernale, di una ragazza col cappotto rosso seduta sul ciglio della strada. Un pittore umano e colto che guardando a De Chirico e Balthus è riuscito, come chiarisce il titolo della mostra (Adelchi Riccardo Mantovani. Sogni lungo il Po) a portare il Grande Fiume (e il suo mito) fino a Berlino.

Per il terzo anno consecutivo, dopo Alessandria nel 2019 e Cervia-Milano Marittima nel 2020, La Milanesiana lascia un segno tangibile della sua presenza nei territori che la ospitano. La Rosa simbolo del Festival, disegnata da Franco Battiato, viene ancora una volta reinterpretata da Marco Lodola (1955), tra i fondatori del gruppo «Nuovo Futurismo», che ha scelto «di esaltarne la modernità ispirandosi all’avanguardia storica». La rosa stavolta diventerà così una scultura luminosa, e sarà collocata nei Giardini di Corso Vittorio Emanuele II ad Ascoli «per tenere acceso tutto l’anno lo spirito della Milanesiana». Quella stessa rosa che ogni anno, da 22 anni, viene riletta da Franco Achilli alla luce del tema della Milanesiana. E che, da alcuni anni, in un gioco di specchi, Lodola (lavorando sulla rosa di Achilli) dona alla Milanesiana, e a una città: una rosa viva, che si accende di suoni e colori, e che dialoga con quella città, i suoi giardini, i suoi spazi, le sue architetture. Una rosa che per l’artista vuole sempre essere «ironica, antimonumentale, catodica, contemporanea e vintage».

Le fotografie di due romagnoli d’adozione Giuseppe Nicoloro (1949) e di Manuel Palmieri (1970) raccontano da una parte la passione per una Milanesiana di cui uno è diventato attento cronista (Nicoloro) e dall’altra luci e ombre, paesaggi e spazi vuoti abitati da una luce grigia, giornate e notturni polverosi e liquidi (Palmieri): Nel nome della Milanesiana di Riviera. Artisti, paesaggi e sculture alla Galleria Faro Arte di Ravenna celebra l’arrivo del Festival sulle coste romagnole. I volti dei grandi ospiti del Festival fotografati da Nicoloro sono immersi nelle atmosfere sospese, felliniane di Palmieri («cantore metafisico degli Extraliscio»). A completare il viaggio tre sculture di Leonardo Lucchi (1952), dedicate al tema della festa e del gioco.

Mario Cavaglieri (1887-1969), spiega Vittorio Sgarbi, «è stato un maestro del liberty italiano». Nato a Rovigo da una famiglia israelita, Cavaglieri avrebbe infine scelto la Francia come luogo della vita ma la sua pittura ci porta ancora altrove, a Lucio Fontana o a Pollock. Nelle sue composizioni senza limiti, colorate e materiche, c’è un piacere libero quasi come nell’arte informale. A Venezia, a Ca’ Sagredo, in un palazzo nobiliare affacciato sul Canal Grande, la Milanesiana propone una sua monografica (Mario Cavaglieri. Alla ricerca del tempo perduto) in cinque opere che, attraverso un gioco di spazi (spesso vuoti) e di luci, riescono a trasmettere «un’aria di Mondo, una gioia quasi fisica, una eruzione di vitalità». Che rende Cavaglieri classico eppur modernissimo.

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