Non sparate sulle installazioni

estetiche
Sono la forma più diffusa e temuta del contemporaneo Ma anche la sola sfida possibile lanciata dagli artisti al tempo precario della smaterializzazione.
di Achille Bonito Oliva
L’installazione, come forma prevalente dell’espressione artistica attuale, nasce dal confronto e dalla relazione con la telematica e finisce per scaturire in una sorta di “anoressia dell’arte”. L’anoressia è uno stato paradossalmente patologico nella società di massa, dominata dallo standard e dal desiderio di realizzare quello che io chiamo una sorta di “sosialismo”: essere sosia di un modello che tende sempre più a superare le differenze e a essere dominato dal senso della scomparsa, dell’assottigliamento. L’anoressia tende a distruggere la concretezza e lo spessore del corpo, è anche abitata da una involontaria intenzione di aggressività: il corpo che si assottiglia, tende a perdere la carne e ad evidenziare lo scheletro, direi proprio la corazza dello scheletro e quindi in questo senso una struttura forte, aggressiva e penetrante. Se noi ribaltiamo questo concetto di anoressia nel campo della telematica vediamo che possiamo in questo modo rappresentare la smaterializzazione, la dematerializzazione dell’oggetto dell’arte che tende in questo senso ad essere penetrante e ad entrare negli spazi domestici, mettendo in crisi e discussione la statica architettonica del museo e delle gallerie. Dunque la telematica sviluppa un’idea di spazio felicemente precario.
Che cos’è l’installazione, la videoinstallazione, se non uno spazio vaporizzato strutturabile e destrutturabile che può essere ogni volta ricostruito a seconda dell’invaso architettonico entro cui va a posarsi? Quindi in questo senso l’idea di arte totale, quale precipitazione multimediale e interdisciplinare, espressione di sincretismo linguistico. Che cos’è l’installazione se non la capacità, l’astuzia dell’arte di attraversare quest’epoca di smaterializzazione dominata dalla telematica? Ecco che la videoinstallazione diventa quella che possiamo chiamare la casa dell’arte. Casa dell’arte, ma non un habitat che ha come referente il radicamento territoriale della civiltà contadina; la casa quale alveo materno, archetipo definitivo, indistruttibile, ferocemente mediterraneo, da cui si viene e a cui si ritorna, ineluttabile, ineludibile e direi anche inossidabile. La casa dell’arte è una casa precaria, è una casa mobile che ha più a che fare con un’altra tematica che mi è molto cara che è quella della diaspora dell’arte.
L’artista è nomade: è artista che opera attraverso un linguaggio che non è radicato a una tradizione autarchica, circoscritta geograficamente, ma è la sintesi, la conseguenza di una memoria culturale che è stratificata in senso verticale ed ampia in senso orizzontale. Attraverso il linguaggio, attraverso materiali smaterializzati, vaporizzati, impalpabili, ecco che l’artista costruisce la sua casa dell’arte. Una casa montabile e smontabile, come le tende del nomade nel deserto, che protegge l’artista ma non lo blinda come una trincea né gli assicura sopravvivenza definitiva. Egli ha bisogno di una casa mobile, in cui sostare e da cui partire.
Non a caso il video, nel momento in cui si intreccia con l’installazione, assicura un clima che non è né diurno né notturno; è quel clima che io chiamo del “dormiveglia”, uno stato ambiguo, uno stato di abbandono e di lucidità, uno stato intermedio, ambivalente, strabico e complesso. Ecco che allora la casa dell’arte appartiene più alla cultura della diaspora, di un eterno movimento a cui l’artista per scelta si abbandona, ma non in maniera passiva, come chi subisce il destino tragico imposto da altri.
Per questo motivo questo termine va adoperato al plurale, “diaspore dell’arte”, per evitare anche il ricatto di un termine di cui bisogna avere un grande rispetto in quanto ci ricorda il destino tragico del popolo ebraico e anche di altri popoli, che hanno subito, costretti, la diaspora. Ovvero abbandonare il territorio materno, il luogo di nascita, di sviluppo e direi di estensione della propria peripezia esistenziale.
Le diaspore dell’arte assicurano laicità al significato di questo termine e designano anche la scelta dell’artista, un destino necessario e progettato dall’artista stesso. Ecco che allora la videoinstallazione diventa il luogo di incontro non solo dell’artista che ha progettato questo spazio vaporizzato, ma anche lo spazio di un appuntamento col sociale, con lo spettatore, immesso all’interno non con uno sguardo passivo, bensì con la peripezia del proprio corpo, con l’attività motoria della propria struttura psicosensoriale.
Ecco che allora la casa dell’arte diventa lo spazio dell’oasi, là dove trovano insieme sosta, beneficio, accoglienza, direi anche bevande, l’artista e lo spettatore stesso. Un luogo dove sostanzialmente ci si può abbandonare allo spettacolo e anche al riposo, riposo inteso in questo senso come sosta fomentata dalla qualità vaporizzata dello spazio. E in tal senso allora “Conservare l’inconservabile” significa poter montare e smontare l’opera, significa poter depositare il progetto dell’artista nell’archivio della memoria e risuscitarlo quando ce n’è bisogno.
È proprio qui io trovo coincidenza tra la videoinstallazione e la telematica. È qui che io trovo possibile un confronto dignitoso, non patetico, tra la casa dell’arte e la forza penetrante della telematica che spesso aiuta lo spazio domestico del singolo, ma lo può anche passivizzare; invece la casa dell’arte è uno spazio attivo, che dà protagonismo, non solo allo spettatore, ma identità all’artista che l’ha progettata. Di quale progetto noi parliamo? Non certo del progetto abitato ancora dalla superbia razionalista dell’artista degli anni Venti e Trenta: una superbia generosa, supportata dal concetto di utopia, un’utopia che nel suo significato doveva già dare coscienza all’artista che si trattava di un non luogo.
Ecco che l’artista è consapevole che l’arte è un non luogo a procedere. Perciò la videoinstallazione lavora tra utopia e distopia. Allora la videoinstallazione diventa lo spazio del riscatto, diventa la prova che si possa ancora praticare il concetto di progetto.
Ma si tratta di un progetto dolce, un progetto che non può oggi riversare all’esterno la forza aggressiva dell’artista che vuole positivamente dare un ordine morale al mondo. È invece la prova di uno spirito resistenziale, di una capacità costruttiva del linguaggio di organizzarsi in maniera delicata e non autoritaria.
Contro l’uso indiscriminato, potenzialmente autoritario della telematica, l’artista è quello che propone le proprie suppellettili al servizio della fantasia, dell’immaginazione e dell’unica avventura possibile per transitare nel XXI secolo.
https://www.repubblica.it › robinson