Non abbiate paura di essere medievali

Superstizioni e pandemia. Economia e lotta di classe Lo storico Alessandro Barbero svela che cosa ci avvicina oggi a quei secoli di grandi cambiamenti
di Paolo Di Paolo
«Mi creda, l’ultimo pensiero che poteva passare per la mente di un uomo del Medioevo era “sto vivendo nel Medioevo”». Definire un’epoca – sostiene Alessandro Barbero – è un’operazione plausibile solo a posteriori. Per questo, capire il tempo che stiamo vivendo, e dargli un nome, sarà possibile solo «quando saremo sicuri di come è andata a finire». Medievista di formazione, conoscitore della storia militare, straordinario narratore, per l’anno dantesco ha dedicato al poeta della Commedia una fortunatissima biografia ( Dante, Laterza). Nelle cui pagine, per lampi, viene illuminata la società di un’epoca complessa e stratificata che, per convenzione e per pigrizia, insistiamo a chiamare Medioevo.
Volessi domandarle se siamo entrati in un nuovo Medioevo, lei come la prenderebbe?
«Le direi che siamo fatti così. Noi esseri umani, dico. La nostra percezione è quasi sempre quella di un peggioramento progressivo: dove andremo a finire?
Era meglio prima! Non dobbiamo però fidarci troppo di noi stessi, e nemmeno delle definizioni date in tempo reale. Nei sessant’anni di vita che ho alle spalle, ho superato una presunta “era atomica” e un’altrettanto presunta “era spaziale”. Quanto al fatto che la nostra sia letta come un’epoca di transizione, bisogna dire che in realtà ogni epoca lo è. Nella storia umana tutto è formicolante, in movimento, niente sta fermo. Anche quando abbiamo l’impressione di una stasi».
Dal nostro mondo di paure, ci figuriamo il Medioevo come un tempo sovraccarico di paure.
«La verità è che ci piace pensare a un certo Medioevo, siamo innamorati di immagini convenzionali, di mezze verità e di molte bugie. Ma il Medioevo, per come era davvero, non asseconda le nostre preferenze: è un guazzabuglio di contraddizioni. E non era un’epoca particolarmente attanagliata dalle paure. Questo non toglie che prenderle in esame come oggetto storico abbia senso. Le paure condizionano il modo di pensare e di sentire dei singoli e delle collettività, e cambiano da un’epoca all’altra. Un esempio? La grande paura del terrorismo con cui si è aperto il ventunesimo secolo.
L’angoscia al pensiero di un aereo dirottato, di un furgoncino impazzito che schiaccia la folla, sembra temporaneamente sospesa. All’inizio del ventesimo secolo, gli agenti del terrore erano gli anarchici; e d’altra parte, se ti capita costantemente di sentire di questo o quel personaggio uccisi da un anarchico, ti fai l’idea che siano soggetti da temere sul serio. Oggi la cosa ci fa sorridere».
Il parallelo fra peste e Sars-CoV-2 lascia il tempo che trova?
«L’Europa è sopravvissuta a malattie ben più violente del Covid, che uccidevano rapidamente anche un terzo della popolazione. La vera parola chiave di questi anni (vale anche per il terrorismo internazionale), più che “paura”, mi pare “sicurezza”: ne siamo ossessionati. Strutturalmente preoccupati dalla diffusione del virus, abbiamo ridefinito ogni gerarchia: perfino il Pil è passato in secondo piano! Se esistono strategie per aumentare la sicurezza, bisogna trovarle: è l’imperativo categorico di questo secolo».
E la paura di vivere alla fine dei tempi? Da un sondaggio sulla cui attendibilità non garantisco, è emerso che il 27 per cento degli australiani tra i dieci e i quattordici anni ritiene che vedrà la fine del mondo prima di diventare adulto.
«La ricerca storica ha sfatato la leggenda dei terrori dell’Anno Mille. Non si sono mai registrati particolari paure in vista di una data, di un appuntamento con il calendario. Ho trovato contratti di affitto stipulati nel dicembre 999 per i successivi venticinque anni. E comunque, per paradosso, può risultare perfino rassicurante vivere in un mondo di cui si conosce la fine, vivere una storia la cui conclusione è già prevista.
Poi per carità: chiunque si augura che l’ultimo giorno non sia domani».
Però una stilla di millenarismo, laico e aggiornato, si è colta in qualche dibattito sul presunto potere migliorativo della pandemia per la comunità umana.
«In una società cristiana, nel Medioevo ma non solo, ogni trasformazione positiva è legata ai concetti di pentimento ed espiazione. Al cosiddetto Medioevo, comunque, va riconosciuta l’invenzione del Purgatorio, che alleggerisce un formidabile peso psicologico. Se la scampo, vado in Purgatorio! E poiché oltre al Purgatorio il Medioevo ha inventato il capitalismo, si poteva comprare o vendere praticamente qualunque cosa: da questo, l’idea che bastasse investire un po’ di soldi per salvare uno zio trapassato… Quanto all’idea di una catastrofe catartica, bisogna riconoscere che di tanto in tanto se ne registra qualche esempio. Nel ’900, più che al primo conflitto mondiale – un orrendo massacro che si voleva stupidamente come “ultima guerra della Storia” – penso alla seconda guerra, sulle cui macerie materiali e morali si è realmente sviluppato un mondo nuovo: crescita economica, ripensamento dello stato sociale, riconoscimento di nuovi diritti. I trent’anni forse più generosi della storia recente. Le Nazioni Unite sono state effettivamente protagoniste di un cambiamento epocale, e non solo su un piano simbolico. Nella mia memoria di bambino negli anni Sessanta, per dire, è impresso il nome dell’allora segretario, U Thant».
Dopo il Medioevo, il Rinascimento, ripetevamo alla cattedra…
«La rinascita di un mondo non è sempre visibile e misurabile nell’arco di qualche anno. Talvolta occorre qualche secolo. Ma la categoria di Rinascimento andrebbe contestata storicamente così come si contesta quella di Medioevo. Il Rinascimento, tutt’al più, è il Medioevo che arriva a compimento. Detto in altri termini: decenni in cui si accumulano scoperte, nuove conoscenze, invenzioni (il sestante, la bussola), denaro consentono a Colombo di mettersi in viaggio sulle sue caravelle e di porre fine, come era scritto sui libri di scuola, al Medioevo. Secoli di progresso, di lavoro di architetti e di matematici portano a maturazione un processo che consente a Brunelleschi di realizzare la cupola perfetta…».
E sul fronte dei conflitti sociali, dei “tumulti”, stando al gioco, quel Medioevo che cosa può dire a questo?
«Nel mondo medievale la contrapposizione fra classi è fortissima: l’abbigliamento e le consuetudini rendono l’appartenenza sociale immediatamente riconoscibile. La mobilità è ridotta, benché il singolo intraprendente avesse l’occasione di crescere. Certo, la retorica dominante dice: “Dio ha voluto il mondo così”, e per mantenere il suo status quo il nobile se ne avvantaggia, invitando i poveri a lavorare e a non protestare. Ma tra padroni e servi c’era maggiore prossimità fisica di quanta non ve ne sia oggi tra il miliardario Bezos e un cittadino qualunque. Quel miliardario è irraggiungibile, vive letteralmente in una realtà parallela, il suo reddito è fuori misura rispetto a qualunque reddito. Oggi farei molta fatica nel descrivere a un marziano come è fatta la nostra società. Il marxismo sembra passato di moda, e sull’idea di classe sociale prevale quella di gruppo, di minoranza che manifesta il proprio malessere e giustamente vorrebbe che fosse riconosciuto. Mentre da qualche parte il nobile, non così sensibile alla causa, si permette il suo bel viaggio nello spazio e pensa, da lassù: lavorate e non protestate…».
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