Noi, nel tempo delle crisi

L’intervento Si sviluppano velocemente e si muovono su piani diversi: sociale, economico, sanitario. Paolo Giordano riflette sui grandi eventi imprevisti che ci aspettano domani. E sulle contromosse che dobbiamo predisporre oggi

 

di Paolo Giordano

Globali, rapide, simmetriche, complesse: come sono le fratture della modernità. E come possiamo viverle

 

 

La pandemia, con la sua carica di tragedia tutt’altro che archiviata, ci offre quanto meno la possibilità di osservare una di queste crisi dall’interno, nel suo sviluppo capillare.

La mia ipotesi di lavoro è che le crisi della nostra epoca, proprio come la pandemia, saranno sempre più caratterizzate da determinati tratti. Il primo è, appunto, la capillarità. Il secondo è la totalità: le nuove crisi tendono a occupare tutto lo spazio a loro disposizione, tutto lo spazio politico, tutto lo spazio sociale ed economico, tutto lo spazio mediatico, come gas espansi. Si manifestano per questo su scale sempre più imponenti.

A ciò si legano altre proprietà. La simmetria, ad esempio. La pandemia sta riguardando tutto il mondo in modo simile, nonostante l’ostinata incredulità dell’inizio da parte di molti. Pur con differenze di grado e piccoli scartamenti temporali, impatta con lo stesso segno su tutte le nazioni e tutte le comunità, senza risparmiare nessuno. E c’è la velocità. Il nuovo coronavirus è emerso in qualche angolo della Cina a fine 2019, ma nel giro di pochi mesi si è diffuso nel mondo intero, tanto da perdere qualsiasi connotazione regionale o di appartenenza. È arrivato nelle stazioni di ricerca in Antartide così come nelle comunità native dell’Amazzonia, dove ha compiuto un massacro.

E infine, le crisi del presente sono multidisciplinari. Un altro modo per dire che sono altamente complesse. Non solo non sono più localizzabili geograficamente, ma non lo sono nemmeno qualitativamente. La pandemia è all’origine una crisi sanitaria. Che diventa economica. Che diventa sociale. Che diventa politica. Che diventa giuridica e cooperativa e psicologica. La multidisciplinarità ha come conseguenza diretta l’assenza di una guida affidabile, l’evaporazione del concetto stesso di «esperto della pandemia». Nessuno di noi, nessuno su questo pianeta possiede tutte insieme le conoscenze necessarie anche solo per pensarla. La figura archetipica del vecchio saggio, così radicata in noi, la figura di colui che nel villaggio aveva visto abbastanza da essere in grado di scegliere per la comunità in modo assennato, non esiste più. Viene liquefatta in una moltitudine di competenze diverse e altrettanto essenziali. La qualità unitaria migliore che si possa possedere nel presente, quella a cui forse dovremmo anelare tutti, è l’umiltà di accogliere la nostra incompletezza.

L’esempio della pandemia è recente e cocente. Ma non è difficile riconoscere caratteristiche simili a quelle elencate in altre crisi dell’ultimo ventennio, come quella finanziaria del 2008, anch’essa simmetrica, capillare, multifattoriale, più fulminea che veloce. E lo stesso vale per le crisi in corso e per quelle all’orizzonte. La crisi ambientale soddisfa tutte le ipotesi descritte, ulteriormente potenziate. Una pandemia da virus informatici non sarebbe tanto diversa, basta immaginare il tracollo a cui porterebbe. E così una perdita di controllo sulle intelligenze artificiali.

Tutta questa descrizione teorica punta nella stessa direzione, ovvero verso la fine del gradualismo. Il gradualismo è quella tendenza dominante non solo nella nostra cultura ma nella nostra stessa psiche, a considerare i cambiamenti come qualcosa di lento, costante, lineare in termini matematici, «graduale» per l’appunto. Non solo noi tutti abbiamo una mente gradualista, ma il pregiudizio del gradualismo ha dominato la scienza per secoli. Quando, alla fine del XVIII secolo, Georges Cuvier avanzò l’idea che alcune specie animali che avevano abitato il pianeta si fossero estinte in seguito a dei cambiamenti repentini, a vere e proprie catastrofi, la sua teoria venne fortemente osteggiata. Cozzava contro un pregiudizio quasi invincibile, quello che l’evoluzione non facesse salti. Cuvier portò delle prove schiaccianti, dimostrando che certi animali come il mastodonte erano scomparsi in poco tempo senza alcuna trasformazione in specie successive. Nondimeno, la sua teoria rimase ai margini della prospettiva scientifica a lungo.

Ancora nel secolo scorso le teorie cosiddette «catastrofiste», cioè non graduali, come la scomparsa dei dinosauri in seguito all’impatto di un asteroide, la formazione dei continenti per deriva, perfino il Big Bang, hanno faticato ad affermarsi. Ci sono voluti decenni per raggiungere il consenso quasi unanime riguardo all’accumulo di gas serra nell’atmosfera a causa delle attività industriali, poi altri anni per trovare il consenso sugli effetti nefasti di quell’accumulo. Anche all’inizio della pandemia l’atteggiamento prevalente era quello gradualista: passerà, andrà tutto bene, è solo un’altra influenza. La resistenza e lo scetticismo esistevano innanzitutto fra gli scienziati.

Se si accetta anche solo in parte l’ipotesi che le crisi della modernità abbiano per vocazione dei tratti di novità assoluta, che abbiano in comune l’essere «senza precedenti», allora ne consegue anche il fatto molto scomodo che quelle crisi non esistono ancora nei dati. Perché i dati prevedono il futuro solo assumendo il passato.

La statistica stessa si basa principalmente sull’idea di «norma». «Media aritmetica», «mediana», «deviazione standard», «distribuzione normale»: tutto rimanda alla norma, all’ordine. Eppure, lo abbiamo visto, durante la pandemia tutto è stato fuori dalla norma. La sanità ha operato fuori dalla norma, con un accentramento delle risorse su una singola patologia, con protocolli nuovi e spesso cruenti, e in maniera escludente verso il mondo esterno. Non a caso, i reparti più coinvolti sono stati quelli di emergenza-urgenza, i pronto soccorsi, le terapie intensive e subintensive, reparti dai quali si manifesta adesso una vera e propria fuga del personale, una fuga che rischia di diventare un’emorragia.

Se le nuove crisi sono eccezionali per costituzione, come ci si prepara? La soluzione si trova paradossalmente nel momento della normalità

Ma non solo la sanità: anche la comunicazione ha operato fuori norma. L’istruzione ha operato fuori norma. L’economia, soprattutto intesa come sostegno a chi si è trovato improvvisamente in difficoltà, ha operato fuori norma. Eppure, mentre tutto andava fuori norma, il nostro modo di pensare continuava a essere legato alla norma. Di più, alla normalità. La normalità è stata forse l’entità più idolatrata nei due anni di pandemia. Abbiamo anelato alla nostra presunta normalità di prima a ogni passaggio. Ed è stato proprio il «pensar normale» a fregarci più di una volta. Eravamo così pronti a riabbracciare la normalità non appena le cose andavano meglio, da rilassare sempre troppo in fretta le cautele, cosicché la pandemia si è trasformata in un’alternanza di allerta e distrazione. Il «pensar normale» veniva interrotto solo quando era ormai troppo tardi.

Il «pensar normale» riguarda tutti. Istruiti e non. Giovani e meno giovani. Esperti e inesperti. La normalizzazione del Covid è avvenuta innanzitutto da parte di alcuni medici, non disposti ad accogliere l’eccezionalità delle circostanze, poi non è stato più possibile sradicarla. Il mio ex medico di famiglia è morto di Covid nell’aprile del 2021. In quanto medico, sarebbe stato vaccinato già da tempo, se non fosse stato un no vax convinto. Le sue opinioni sui vaccini datavano a prima della pandemia. Si presentava come omeopata e come pranoterapeuta, oltre che come medico, e quello era il suo «pensar normale». Non è cambiato neppure con la circolazione di un virus letale, per il quale lui si trovava nella fascia a rischio e per il quale deve aver visto pazienti in quantità ammalarsi e morire. Il «pensar normale» è così, è più forte di tutto, anche della paura della morte.

È anche la sorgente primaria del negazionismo e di molte teorie del complotto. Entrambi, infatti, non sono che il tentativo disperato di trovare una trama coerente per spiegare qualcosa di troppo enorme, eccessivo; qualcosa che ci appare davvero poco probabile e la cui anormalità crea inquietudine. Il negazionismo lo fa non ammettendone l’esistenza. Il complottismo crea una trama alternativa, spesso più contorta della realtà stessa ma che fa affidamento su paradigmi considerati dalla mente più consueti, più accettabili.

Infine, il «pensar normale» ha una tendenza innata verso l’esclusione. A novembre del 2020 i miei suoceri si sono ammalati di Covid a Torino. Lei asintomatica, lui con tosse e febbricola, anche se lamentava soprattutto la stanchezza. Nessuno li ha visitati. Nemmeno una volta. Il medico di famiglia ha prescritto al telefono del paracetamolo. Se non avessimo procurato loro un saturimetro, se non avessimo visto che la saturazione di mio suocero era scesa al 91%, se non avessimo avuto un amico responsabile di pronto soccorso in città e se lui non ci avesse invitati a portarglielo subito e non l’avesse ricoverato per polmonite interstiziale, l’epilogo — oggi lo so — sarebbe stato diverso. Com’è stato diverso in innumerevoli altri casi di cui non sapremo mai. Nascosti dal «pensar normale» che già avvolge i mesi trascorsi.

Molti anziani del nostro paese non sono stati colpiti così duramente dal Covid solo perché la malattia prediligeva le loro condizioni, ma anche perché si trovavano fuori da quella che noi consideriamo la norma dell’esistenza, la fase produttiva e riproduttiva di ognuno. Gli anziani sono la coda della distribuzione normale e quindi, nella percezione collettiva, contano meno.

Non vorrei concludere senza almeno provare a indicare qualche risposta alla domanda implicita che ho sollevato. Se le nuove crisi sono eccezionali per costituzione, come ci si prepara alla loro eccezionalità? La soluzione si trova, paradossalmente, proprio nel tempo della normalità. È solo fuori dalle crisi che si formano i presupposti per non farsi travolgere quando arrivano. Può sembrare ovvio, ma non è ciò che facciamo. Non è il modo di ragionare della nostra politica. E non è il nostro. Qualcuno ha sentito parlare, negli intervalli in cui abbiamo avuto energie libere, di rafforzare seriamente le infrastrutture per affrontare le prossime pandemie? Qualcuno ha sentito parlare di strategie di adattamento agli eventi estremi che il cambiamento climatico promette? O parliamo sempre e solo di emergenze imprevedibili e impreviste?

Ed è nel tempo della normalità che si coltiva la fiducia nelle istituzioni. Non in quello dell’eccezionalità, dove invece quella fiducia andrebbe spesa. Anche questo non è stato il paradigma dominante degli ultimi anni. Abbiamo assistito, al contrario, a una costante opera di delegittimazione delle istituzioni, comprese quelle scientifiche, soprattutto da parte di certe forze politiche. Siamo entrati nella pandemia non con un credito di fiducia, ma già gravemente in debito.

La persona più cara che il Covid mi ha portato via era un germanista. La sua è stata una morte fuori dalla norma. Aveva appena 62 anni, è successo nella quarta ondata, quella «soft», era vaccinato e viveva a Berlino. Tutti elementi che rendevano la sua morte poco probabile. Eppure. Le cose non succedono solo sotto il picco della Gaussiana. C’è molta sofferenza anche nelle code, lontano dalle medie.

Luigi era un esperto di Hölderlin. Vorrei concludere con la strofa di una poesia che ha tradotto. S’intitola A Neuffer. Nel marzo 1794. Per coincidenza, quasi lo stesso anno in cui Cuvier presentava le sue osservazioni sul catastrofismo. Coraggio! dice Hölderlin. È degna dei dolori, questa vita,/ Finché a noi miseri appare il sole di Dio,/ E immagini di un tempo migliore si librano sull’anima,/ E con noi piange un occhio amico.

 

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