Rivoluzioni arabe. Non solo un anniversario

Di colpo, come succede con le cifre tonde, si parla di nuovo di “risveglio arabo”, a dieci anni dall’autoimmolazione di Mohammed Bouazizi, il giovane ambulante di Sidi Bouzid vessato dalla polizia tunisina. Il suo gesto estremo fu la miccia di una rivoluzione passata ormai alla storia come la prima, quella che diede la stura a movimenti di protesta (e di proposta) in tutto il mondo arabo. Succede, però, che anche stavolta, come spesso durante quello che a pieno titolo può ora definirsi il decennio delle rivoluzioni arabe, si debbano leggere o ascoltare definizioni superficiali o apodittiche che trasformano la “primavera araba” – definizione tutta occidentale – in un “autunno-inverno arabo”, come se stessimo a parlare di moda. O di mode. 

Il problema è che – ed è comprensibile – proviamo a capire quello che succede nell’Altrove usando i nostri metri. E’ per questo che possiamo passare da un mese all’altro dall”euforia per la primavera araba alla delusione per l’inverno che è sopravvenuto. Non è però così. Non è successo così. Gli attori in gioco sono troppi per poter analizzare quello che sta succedendo in un’intera regione come se stessimo parlando di un duello tra due contendenti armati di spada. 

Il tempo della Storia non è quello che coincide con il tempo individuale, con la durata di una vita o di una generazione. Occorre attendere. Osservare. Occorre aspettare per comprendere cos’è stata nel 2011 la rivoluzione tunisina, e poi quella egiziana, e le sollevazioni in Yemen, Bahrein. Siria, Libia, Marocco. E, successivamente nel 2019, i movimenti di piazza in Algeria, Sudan, Iraq, Libano. Attendere e non essere impazienti. Perché l’impazienza ha dato luogo ad analisi come quelle che dicevano: basta, è stata solo una fiammata, una rivolta chiusa all’interno dei confini di ogni singolo Stato arabo, conclusa con una controrivoluzione e il consolidamento del cosiddetto “deep State”. In Egitto. In Siria, Forse in Libano. Troppo deterministica, questa lettura. E’ cioè una interpretazione che non lascia spazio né alla complessità degli eventi che si sono succeduti l’uno dopo l’altro, né al fatto che gli attori in gioco sono differenti e tra loro diversi, rispetto agli attori sociali, politici e istituzionali di alcuni anni fa.

Evitiamo di mettere etichette tutte nostre a una storia che si sta ancora facendo. Cerchiamo di capire le ragioni che sottendono a quello che sta succedendo nella regione araba da dieci anni esatti a questa parte. E’ il modo in cui possiamo onorare la morte di Mohammed Bouazizi e di tutti coloro, moltissimi giovani ma non solo, che allora sono scesi in piazza, e poi dalle piazze sono stati violentemente esclusi, ammazzati, arrestati, torturati. Dieci anni fa così come ancora oggi.

Per il momento, ripropongo quello che su questo blog avevo postato nel gennaio del 2011. Poco meno di dieci anni fa. Su Mohammed Bouazizi e il senso del suo gesto estremo. Che alla mia generazione, ma non solo alla mia, ricordava e ricorda un altro ragazzo del suo tempo.

Da Jan Palach a Mohammed Bouazizi – 15 gennaio 2011

Non pensavo di trovare conferma alla mia tesi che lega il dissenso eurorientale con quello arabo sul più importante portale tunisino dell’opposizione, nawaat.org, sino a ieri impossibile da vedere in Tunisia, per la censura che strangolava tutto il web nazionale. Astrubal, su nawaat.org, traccia addirittura una linea rossa che unisce un ragazzo di Praga, Jan Palach (che la mia generazione si ricorda ancora oggi come fosse successo appena ieri), con Mohammed Bouazizi, il ragazzo di Sidi Bouzid, un ambulante, che si è dato fuoco a dicembre. Dal suo sacrificio, come allora, è iniziata la web-rivoluzione tunisina. E continuo a chiamarla tale perché solo un mezzo potente come internet è stato non solo brodo di coltura, ma rete, collegamento, agorà per migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di ragazzi. Se è vero che a Facebook, in un paese di oltre 10 milioni di abitanti, sono abbonati due milioni di tunisini, questa ipotesi ha senso. Ha senso perché anche Mohammed Bouazizi, da Sidi Bouzid, era abbonato, e a Facebook – racconta Astrubal – aveva affidato qualche riga. I suoi ultimi pensieri.

Mohammed Bouazizi come Jan Palach. Il dissenso che si fa gesto disperato. Eppure, rimane dissenso e contagia chi era già stato esposto, per anni al virus. Per così tanti anni, da far ricordare all’autore dell’articolo su nawaat.org che il dissenso via web aveva già avuto altri morti e altri martiri. Il primo, il più importante, Zouhair Yahyaoui, il creatore di TuneZine, il primo web-magazine che fece provare a Yahyaoui prigione, tortura e morte. Da samizdat su macchina da scrivere e ciclostile, a e-samizdat affidati al vento di internet: la linea rossa continua, è quella di un dissenso che non si può reprimere più di tanto, perché la pentola – dice una mia amica che ha scelto di rimanere a Tunisi – poi alla fine scoppia.

Detto francamente, non mi aspettavo che un paragone del genere mi arrivasse direttamente sullo schermo dal web tunisino. Non mi aspettavo che la memoria di Jan Palach avesse traversato il Mediterraneo…

Solo nel mondo arabo, per spiegare ciò che succede, si citano poesie. E’ nell’animo arabo, nella cultura popolare, nei sentimenti. Marwan Bishara, il più importante analista politico di Al Jazeera, cita il più grande poeta tunisino per spiegare come mai questa Web-Rivoluzione del Gelsomino sia stata così veloce e impossibile da fermare.

The simplest and perhaps the most accurate answer was “provided” almost a century ago by Tunisian poet Abu Al-Qasem Al-Shabi (Schebbi), in his Defenders of the Homeland which became the most popular verse in Arab poetry, and used in the Tunisian national anthem: “When people decide to live, destiny shall obey, and one day … the slavery chains must be broken.”

Andrei più avanti di Bishara, e aggiungerei anche che nel mondo arabo non si può mai prevedere quando la pentola scoppierà, quando le catene si romperanno. Un giorno succede, con un ragazzo disperato che si dà fuoco. Che non fa il kamikaze, ma diventa l’esempio che non si deve avere più paura, perché non si ha nulla da perdere se non una vita disperata. Ma non si potrà mai prevedere quando. E se avrà successo. Mentre scrivo, i ragazzi dei paesi accanto, soprattutto dell’Algeria e dell’Egitto, scrivono virtualmente ai tunisini, onorano  il loro coraggio, si chiedono perché mai loro – sinora – non lo abbiano avuto. Io non so se l’effetto domino andrà in scena ora, tra un anno, tra cinque. Se dovessi collegare la vecchia storia dell’Europa dell’est, il giovane Jan Palach al giovane Mohammed Bouazizi, direi che l’effetto domino sarà presto. Come effetto domino ci fu tra anni Cinquanta e Sessanta.

Credo, però, non sia importante mettersi con una palla di vetro e tentare di auscultare il futuro. Meglio leggere il recente passato e il presente. E da dieci anni quelle generazioni di Bouazizi dicono che non ce la fanno più, che sono rimaste inascoltate dai propri regimi autoritari così come da un Occidente sordo e vigliacco, che preferisce fare grandi accordi e delocalizzare piccole imprese. Senza pensare a chi, giovane, in quelle imprese, sarà impiegato per un tozzo di pane. I think tank delle aziende italiane o francesi che avevano investito in Tunisia avrebbero fatto bene a studiarsi non solo i numeri della società e dell’economia tunisine, ma anche il web che chiedeva libertà, prima di investire un euro nel modo in cui sono stati investiti. Per poi non lamentarsi se, sul web, persino ai turisti viene chiesto di non venire più. Perché la Tunisia, così come l’Egitto, non è un grande resort sul mare. E’ molto altro, nascosto agli occhi indifferenti dei vacanzieri.

Succederà qualcosa – e presto – in Egitto, in Algeria, persino in Giordania dove ieri migliaia di persone sono scese per strada contro il carovita? Chissà, chissà… Non ho mai amato gli aruspici, soprattutto quelli che prevedono a tavolino. Dico solo che bisognerebbe studiare. E avere l’umiltà di ascoltare gli “invisibili“, i miei invisibili, che da anni parlano, e chiedono rispetto.

Oggi festeggio la web-rivoluzione tunisina, con una gioia doppia. Ovviamente per i miei invisibili. Domani ci occuperemo, da analisti, del futuro incerto della Tunisia. Futuro incerto causato non dai ragazzi del web, ma da un regime autoritario, corrotto e sostenuto a spron battuto, sino all’ultimo, da tutto l’Occidente. Europa, Francia, Italia comprese. Il baluardo laico del Maghreb… Parleremo allora di una rivoluzione sostenuta da tutto lo spettro politico dell’opposizione, dai comunisti di Hamma Hammami ai Fratelli musulmani in esilio di Rachid al Ghannouchi (che ho ascoltato a una conferenza londinese sull’islam politico). Parleremo di futuro, di costituzione, di elezioni, di quadro politico, di esercito. Ma per ora, oggi, mi godo il sapore di una piccola rivoluzione inattesa, corale. E giovane.

I commenti e le analisi di Paola Caridi sulle rivoluzioni arabe sono consultabili sul suo blog, invisiblearabs.com. Alle premesse delle rivoluzioni, e cioè ai segni dei cambiamenti visibili nella regione arabe, Paola ha dedicato un libro pubblicato nel 2007, Arabi Invisibili.

 

 

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