Noi, Arancia meccanica e la profezia dell’algoritmo

L’opera di Burgess, che torna in libreria a sessant’anni dalla prima edizione, è una meditazione sulla violenza insensata, ma anche sugli inconvenienti della tecnologia. Che oggi sembra conoscerci più di ogni altro
 

Nel 1959 a Anthony Burgess venne diagnosticato un cancro al cervello. I medici lo considerarono spacciato. Lo scrittore in quel periodo viveva in Brunei, all’epoca un protettorato britannico, insegnava al Sultan Omar Ali Saifuddien College e negli anni precedenti aveva svolto ruoli analoghi in Malesia. Burgess rientrò di corsa in Inghilterra, pronto a trascorrere a Londra i suoi ultimi mesi di vita. Preoccupato di lasciare una rendita a sua moglie Lynne, si ritrovò a scrivere cinque romanzi in un anno. Col tempo divenne chiaro che la diagnosi dei medici era sbagliata, ma fu in questo periodo di angoscia e sovreccitazione — inseguito dalle furie, sotto il falso alito della morte, governato da forze imponderabili (cui non fu estranea la cupa comicità che certe promesse di dissoluzione portano con sé) — che vide luce un libro come Arancia meccanica.

 

Lo scrittore Antony Burgess 

La distopia di Alex e i suoi drughi nasceva in un contesto culturale fertile. La fantascienza sociale ha nella Gran Bretagna del Novecento il suo luogo d’elezione. Basti pensare a maestri come George Orwell ma soprattutto all’Aldous Huxley di Mondo Nuovo (non a caso Ritorno al Mondo Nuovo fu uno dei libri che Burgess consultò con più costanza in quel fatidico 1959). Un impero coloniale in dissoluzione è evidentemente l’ideale per scoprire, tra crepe e specchi rotti, i mostri del futuro più inquietante, ed è interessante ricordare i trascorsi proprio di Orwell, nato in India, nonché del più brillante allievo di Burgess, l’indimenticato James Ballard che a sua volta, venuto da Shanghai, trascorse in estremo oriente i primi anni di vita.

 

Burgess scrisse Arancia meccanica poco dopo che John Osborne, portando in scena Ricorda con rabbia, aveva mostrato le tensioni che attraversavano la gioventù britannica del secondo dopoguerra, così come sull’altro capo dell’oceano il Marlon Brando de Il Selvaggio scorazzava sullo schermo con la sua gang di motociclisti. Burgess era colpito da questi giovani scontenti di tutto, sboccati, violenti senza causa, insofferenti all’ordine nato dalla tragedia della guerra, un mondo che agli adulti sembrava al contrario da difendere a ogni costo. Tra i motivi ispiratori di Arancia meccanica ci fu in realtà anche un tragico motivo personale, la violenza di cui fu oggetto Lynne a opera di tre disertori americani proprio durante i giorni della guerra. Il titolo del libro venne suscitato da una frase che Burgess sentì pronunciare da un ottantenne cockney in un pub di Londra: queer as a clockwork orange. «L’espressione mi intrigava per il suo improbabile miscuglio di gergo popolare e surrealismo». Queer in questo caso non significa “gay” ma “pazzo”, e orang (fa notare sempre Burgess) in malese vuol dire “uomo”.

Cos’è dunque che può ridurre un uomo a un folle congegno meccanico? E come è possibile che questa opera di disumanizzazione si consumi in un tempo di opulenza, libertà e pace? Che cuore batte in una società capace di produrre un individuo come Alex? Ma soprattutto, in che modo quella stessa società reagisce a un giovane «i cui principali interessi sono lo stupro, l’ultraviolenza e Beethoven»? Sono queste le domande capaci di trasformare ciò che altrimenti sarebbe solo la cronaca dei crimini di un gruppo di teppisti in un’opera di genio.
Il datsat, l’idioletto usato dall’inquietante io narrante (quanto gli deve il Patrick Bateman di American Psycho?) è un intruglio di russo e slang giovanile («ho scelto le parole russe perché si mescolavano all’inglese meglio di quelle francesi o tedesche», dirà Burgess), e fa sì che il romanzo si collochi tra gli esemplari tardivi (forse l’ultimo a risultare ancora così leggibile, nota Martin Amis) delle avanguardie novecentesche.
L’audacia linguistica di Arancia meccanica sedusse e spaventò chi decise di pubblicarlo (il suo editor lo descrisse come «uno dei più strampalati problemi editoriali immaginabili») e all’inizio fu un ostacolo per i lettori. A cinque anni dall’uscita, il libro aveva venduto poco meno di quattromila copie. Sarà il film di Kubrick a decretarne il successo in tutto il mondo.

Il regista del Bronx fu deliziato dagli esperimenti linguistici di Burgess (i virtuosismi formali di film e libro portano la violenza verso una dimensione simbolica, motivo ulteriore per considerare ridicole le accuse di istigazione a delinquere mosse a regista e scrittore), ma fu la forza morale del racconto a impressionare Kubrick nel profondo. Arancia meccanica è una lezione sull’imprescindibilità del libero arbitrio. La cura Ludovico impedisce ad Alex di continuare a uccidere e stuprare, togliendogli la libertà di scelta gli estirpa però l’anima, lo trasforma in qualcosa di non più umano. Uno stupratore assassino che può decidere di non esserlo è preferibile a un cittadino modello che non può più scegliere la via del male.

La formazione cattolica di Burgess ebbe un ruolo in tutto questo. Lo scrittore definì il suo libro un’eresia fantascientifica, pur sempre incastonata nella tradizione giudaico-cristiana. «Mi è stato detto che sarebbe stata un’ottima cosa se Adolf Hitler fosse stato sottoposto a una terapia repulsiva», ammoniva Burgess parlando di chi su trattamenti come la cura Ludovico aveva opinioni meno critiche della sua, «purtroppo però Hitler era un essere umano, e se avessimo accettato il condizionamento di un essere umano avremmo dovuto accettare quello di tutti».

Ossessionati come siamo dall’idea del male, potremmo tornare con occhi nuovi su Arancia meccanica. Oltre che un apologo sugli inconvenienti del bene a tutti i costi (nonché sulle retoriche della bellezza destinata a salvare il mondo — Alex ama sia Beethoven sia stuprare e devastare) il romanzo di Burgess è una meditazione sugli inconvenienti della tecnologia. La cura Ludovico si svolge in un cinema, è un lavaggio del cervello ottenuto grazie all’uso delle immagini. Oggi abbiamo a che fare con algoritmi che sembrano conoscerci più dei nostri partner. Quanto siamo condizionati nella formazione delle nostre credenze, delle nostre reazioni emotive, delle nostre decisioni? Il signor Anthony Burgess avrebbe da insegnare anche a questa epoca.

Il libro: “Arancia meccanica” in una nuova edizione

Einaudi riporta in libreria dal 15 febbraio, a sessant’anni dalla prima pubblicazione, Arancia meccanica di Anthony Burgess (pagg. 280, euro 12) con una nuova traduzione affidata a Marco Rossari e la prefazione di Martin Amis. Completano il volume un glossario, testi inediti dell’autore e alcune pagine annotate del manoscritto originale.

 

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