Gianfranco Ravasi
Il 27 ottobre 2011 papa Benedetto XVI decise di commemorare nella città di San Francesco i 25 anni dal famoso incontro interreligioso di Assisi, voluto dal suo predecessore Giovanni Paolo II. La novità fu rappresentata dalla presenza, richiesta dal pontefice, di un gruppo di non credenti. La scelta delle figure da invitare fu affidata a me che, a capo di quella delegazione, proposi la nota filosofa e psicanalista franco-bulgara Julia Kristeva. Il suo intervento di grande originalità e acutezza impressionò il papa, perché riusciva a intrecciare in pochi paragrafi sia il rigore della riflessione post-illuministica sia l’immenso patrimonio socio-culturale delle molteplici tradizioni spirituali, iscrivendolo nell’orbita della modernità.
Ebbene, il titolo assegnato a quella comunicazione era Osare l’umanesimo, ed è proprio attorno a questa parola quasi magica, ma anche da alcuni esorcizzata, che vogliamo proporre una considerazione breve e semplificata. Il vocabolo, infatti, è stato una stella polare del pensiero di questi ultimi secoli, a partire dal Rinascimento col suo rimando alla civiltà classica greco-romana. È stato, però, anche una sorta di stereotipo da applicare a eventi di ogni genere, persino religiosi, come nel caso del Convegno Ecclesiale Nazionale celebrato a Firenze nel 2015 sotto l’egida del titolo In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. L’etichetta «nuovo Umanesimo» è divenuta ormai comune, imposta a saggi vari (alcuni molto interessanti come quello di Michele Ciliberto) e persino a documenti pastorali, come il suggestivo discorso di Sant’Ambrogio del 2014 del cardinale Angelo Scola intestato a Un nuovo umanesimo per Milano e le terre ambrosiane.
Certo è che la genealogia di questa categoria è imponente e ha registrato le tappe più diverse, attraversando persino testi socio-politici: si pensi alla Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite (1948). Anzi, ha avuto una curiosa deriva semantica di cui sono stato testimone proprio nel citato incontro di Assisi. In quell’occasione si accese, infatti, una discussione sulla designazione di quel gruppo di «non credenti»: essi rigettarono subito l’ormai arcaizzante «ateo», così come l’epiteto «agnostico» (i credenti sarebbero allora «gnostici»?) o il negativo «non credenti», o il troppo politicizzato «laico», per altro passibile pure di un significato ecclesiale. Alla fine si optò per «umanisti», accolto con qualche perplessità da parte mia che mi sento, anche per studi, un «umanista».
In realtà, già a partire dall’Humanist Manifesto del 1933, che proponeva l’Umanesimo come nuova fede capace di debellare le altre (vi aderì anche il filosofo John Dewey), si è ormai approdati a un’inequivocabile accezione «atea» del termine, come attesta il logo dell’American Humanist Association: Good without a God. In questa linea, antesignane furono due voci antitetiche. Da un lato, Sartre con la sua conferenza parigina del 1945, poi pubblicata col titolo L’existentialisme est un humanisme: il nodo rovente della libertà umana esigeva una cancellazione della presenza di un Dio, arbitro superiore (ovviamente il suo pensiero era ben più complesso, basandosi sul primato eccedente dell’esistenza sull’essenza umana).
D’altro lato, era entrato in scena un teologo altrettanto famoso come Henri de Lubac che aveva rappresentato, con un’opera molto ampia, quello che egli chiamava Il dramma dell’umanesimo ateo (1943, ripreso in altri saggi successivi con nuove sfumature). Dopo essersi confrontato coi grandi sistemi moderni del positivismo, del marxismo e di Nietzsche, concludeva che «non è vero che l’uomo non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. Tuttavia è vero che, senza Dio, alla fine non può che organizzarlo contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano». In realtà, il primo a intervenire sul tema in modo articolato e in prospettiva cristiana era stato il filosofo Jacques Maritain col successo del suo scritto Umanesimo integrale (1936), desideroso di «integrare» nella visione umanistica anche le categorie cristiane strutturali che ne erano state progressivamente espulse. Significativa è una battuta di quel testo: «Il vizio radicale dell’Umanesimo antropocentrico è d’essere stato antropocentrico e non d’essere umanesimo».
La raggiera tematica, comunque, s’era poi allargata. Non ci è possibile inseguirla, ma solo alludervi con qualche esempio. Pensiamo alla Lettera sull’«Umanismo» che Heidegger rimaneggiò a più riprese, anche in dialettica con Sartre, e che non escludeva «l’essenza del divino che ci è più vicina di quanto lo sia l’estraneità degli altri essere viventi…, più familiare alla nostra essenza e-sistente di quanto non lo sia la parentela fisica con l’animale». Un concetto sviluppato nella nota intervista allo «Spiegel» in cui Heidegger si rivelava scettico sul contributo salvifico della filosofia nell’odierna situazione mondiale, rimandando a un altro orizzonte: «Solamente un dio ci può ancora salvare», perché «davanti a un dio che si assenta o che tramonta, tramontiamo pure noi».
A questo punto dovremmo far salire sulla ribalta una robusta pattuglia di pensatori importanti del Novecento. È facile risalire a due «avversari» di grande calibro che incrociarono le lame in un grande convegno organizzato nel 1949 a Ginevra sotto il titolo emblematico Pour un nouvel humanisme: stiamo parlando di Jaspers e Barth che pure si muovevano nello stesso alveo cristiano ma da sponde diverse, l’antropologia per il primo, la cristologia per il secondo. Molto significativo sulla questione sarà poi il contributo di Lévinas con la sua silloge di interventi tra il 1961 e il 1972 titolata Humanisme de l’autre homme, basata sul progetto di fondare un nuovo Umanesimo antiumanistico che si liberasse da varie spoglie sia del passato metafisico, sia del presente tecnologico autosufficiente. Nasceva, così, un Umanesimo basato sull’incontro con l’altro: «Gli uomini si cercano l’un l’altro nell’incondizione di stranieri. Nessuno è a casa propria. Il ricordo della servitù unisce l’umanità».
In questa luce dalle iridescenze bibliche si comprende lo sforzo di un teologo outsider come Hans Küng che nel suo Essere cristiani propugnava un «umanesimo radicale cristiano, capace di integrare e superare anche il non-vero, il non-buono, il non-bello e il non-umano: non solo tutto ciò che è positivo, ma anche tutto ciò che è negativo, la sofferenza stessa, la colpa, la morte, l’assurdità». Questa provocazione, che è strutturale al cristianesimo, rivela anche il divario dal nitore olimpico dell’Umanesimo rinascimentale, pur capitale per la stessa cristianità, un orizzonte verso il quale sarebbe interessante ritornare per scoprirne – anche in sede critica – la trama ideale, culturale e spirituale. È ciò che desidereremmo fare in futuro.