Quel che resta dell’uomo

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Gli androidi? Un’ossessione erotica maschile. E i paradisi cibernetici
la strada di un neoanimismo
digitale. Il filosofo tedesco riflette
sui falsi miti e sulle vere frontiere dell’intelligenza artificiale
Abbiamo immaginato un’intelligenza artificiale dotata di autonomia ed empatia. Ora si fa l’ipotesi che siamo tutti macchine, pronte a rispondere a determinati impulsi
Stefano Vastano
IA, intelligenza artificiale. Se chiediamo ai registi di Hollywood è chiaro cosa significhino quelle due lettere. Significano il sogno di robot – molto spesso dal volto e dal corpo femminile – dotati di un’intelligenza sconfinata e di un’empatia sempre più (simile) a quella umana. «Per molti teorici del digitale, in effetti», inizia a spiegare il filosofo Julian Nida-Rümelin, «il futuro sarà segnato da una fusione totale di macchine e uomo, da un’era transumana in cui i robot saranno l’amico più affidabile dell’umanità». Un sogno, un’utopia o un assurdo delirio? « Più che altro un enorme fraintendimento delle potenzialità della nuova rivoluzione digitale», precisa il noto pensatore tedesco. Che nel suo nuovo libro “Umanesimo digitale”, pubblicato in Italia da FrancoAngeli, invita a fare i conti, dal punto di vista filosofico, con la realtà dell’intelligenza artificiale. E con la necessità di un «nuovo umanesimo per la sfida più importante del 21° secolo», consiglia Nida-Rümelin, docente di filosofia all’università di Monaco.
Partiamo proprio dal titolo del libro: “Umanesimo digitale”. Non è un ossimoro?
«Sarebbe un ossimoro se lo intendessimo nel senso che il digitale sia di per sé un nuovo umanesimo. Ma non si può arrivare ad esagerare tanto il ruolo delle nuove tecnologie elettroniche, come invece alcuni filosofi della scienza e della tecnologia fanno. Ciò a cui dovremmo pensare è un nuovo umanesimo che si serva delle potenzialità digitali per rendere più vivibile il nostro mondo».
Non metterà in dubbio che ci troviamo in mezzo a una rivoluzione digitale?
«Non ci sono dubbi, le nuove tecnologie digitali sono una sfida antropologica e ci chiedono chi siamo, noi uomini. Quel che non sappiamo è dove ci conduca questo sviluppo globale. Le utopie proposte da vari guru del digitale, i sogni di una società trasparente, di un paradiso cibernetico in cui parliamo alla pari con i nostri amici robot, che al contempo sono i nostri fedeli lavoratori, non si è ancora avverata. E dubito fortemente che si avveri».
Il primo filosofo a pensare il robot come persona infida e freddamente crudele fu Cartesio, immaginando una intelligenza esterna che incarna il Dubbio radicale. La filosofia e l’era moderna cominciano da lì…
«A partire dalle “Meditazioni” cartesiane la filosofia moderna prova a darsi un nuovo fondamento razionale cercando di astrarre completamente da ogni intuizione, percezione o tradizione. Oggi sappiamo che questo fondamento iper-razionale costruito da Cartesio col dubbio e l’astrazione radicale è condannato a fallire. Ed è lo stesso identico errore che compiono oggi i nuovi esperti del digitale che provano a sostituire il linguaggio, la storia e l’intera conditio humana con una serie di algoritmi e un’etica di tipo esclusivamente utilitaristico. Questa è la grande deriva o fallacia iper-razionalistica del digitale».
Ammetterà che l’utopia sognata da alcuni informatici – ad esempio da Hans Moravec – di arrivare tramite l’intelligenza artificiale all’elisir di lunga vita, all’eternità del nostro corpo e cervello, ha il suo fascino…
«Con questa presunta scalata all’eternità grazie alle nuove biotecnologie i guru del digitale non fanno che riscaldare, sotto nuove vesti e parole, i vecchi miti delle religioni. Già Henry Ford, il padre dell’industria automobilistica, una volta lanciò la seguente profezia: «Con l’automobile giungerà la pace in Terra perché ognuno sarà più vicino all’altro». Cambiano gli strumenti e le tecniche, ma i modelli pseudo-profetici e i sogni degli utopisti restano eguali».
Se dai sogni veniamo alla realtà quotidiana non vediamo altro che gente in simbiosi col telefonino, che comunica solo via social e che riesce persino a fare sesso con immagini virtuali. Perché ci innamoriamo di strumenti e figure digitali?
«Non vorrei deluderla, ma credo che tutto questo eros per il digitale, insieme all’idea di un totale controllo della realtà tramite strumenti e modelli tecnologici, non sia tanto un bisogno umano, quanto una tipica ossessione prettamente maschile. Immaginarsi che prima o poi arriveremo a creare in laboratorio veri “attori digitali”, robot cioè dotati di intelligenza ed emotività che obbediscono ai nostri comandi, è forse il sogno più maschile che si possa immaginare».
Non a caso nel film “Metropolis”, anno 1927, di Fritz Lang, si chiama Maria l’androide costruito dal folle scienziato di turno.
«In tutti i blockbuster sfornati a Hollywood negli ultimi tempi, ad esempio “Ex Machina” di Alex Garland, l’intelligenza artificiale è per lo più incarnata da una fatale Eva, dotata di sex appeal, forte emozionalità e intelligenza illimitata. Un androide femminile che il suo padre-padrone crede di poter tenere a bada, per poi finire sistematicamente nella tragedia finale. Una variazione, al cinema, della fallacia razionalistica partita con Cartesio nel Seicento».
Con le tesi del saggio di Freud “Totem e Tabù” si potrebbe dire che le varie Eva e i paradisi digitali altro non sono che regressioni infantili o deliri di onnipotenza. Ma dal punto di vista religioso, non è che nell’era di Internet stiamo tornando a forme di animismo?
«Certo, con il digitale ci stiamo avvitando a nuove forme di animismo tecnologico. Parliamo con macchine e computer. Sogniamo robot integrali, dotati di anima e corpo: stiamo insomma animando i software. Come i romantici credevano in una Natura fatta di sogni e armonie universali, noi oggi sogniamo robot come “anime digitali” che ci servano e capiscano, o che almeno simulino di essere nostri amici «.
La filosofia si chiama così perché, da Socrate in poi, scopre l’amicizia per il sapere. Ma un robot può mai essere un amico?
«L’umanesimo digitale che propongo è l’invito a non mistificare le cose. Per quanto sia intelligente, un robot non sarà mai un soggetto in grado di scegliere e addurre ragioni per un suo comportamento autonomo. Anche se oggi la mistificazione più grave è un’altra».
Quale?
«Dopo aver immaginato un’intelligenza artificiale dotata di autonomia ed empatia, arriviamo alla conclusione che anche noi umani non siamo che macchine che rispondono, secondo certi schemi, a dati impulsi. A una visione neoromantica dell’animismo digitale si associa quindi una abnorme riduzione meccanicistica dell’individuo. Una filosofia che fa certamente comodo ai grandi gruppi industriali che producono i nuovi strumenti digitali».
In effetti a Silicon Valley e dintorni si sta sviluppando non solo l’industria del digitale, ma anche un’ideologia del super-scienziato e della sua comunità di eletti tecnocrati.
« Gli ingegneri informatici non si sentono né si definiscono come umanisti, ma “trans-umanisti”. Per loro non esiste la differenza fra qualcosa come il genere umano e le macchine. Il loro sapere ci porterà a saltare oltre questa arcaica dicotomia e l’antiquato genere antropologico, per sbarcare in una sintesi di uomo-macchina che, nelle utopie neurofisiologiche già menzionate, superi persino i limiti della vecchiaia e sfoci nell’eternità».
In questa versione digitale del sapere e del futuro rientrano anche elementi tipici del puritanesimo americano?
«Certo, visto che la differenza essenziale fra il protestantesimo in versione luterana e quello americano, sta nel fatto che per un puritano il Paradiso e la liberazione della schiavitù umana non sono momenti dell’aldilà, ma forme raggiungibili in questa vita terrena. Il successo nel lavoro e dell’attività umana sono per il puritano segni del fatto che il Paradiso è qui in Terra, e che un gruppo di puri eletti può trasformare questa valle di lacrime in un paradiso globale. Il fascino di Steve Jobs stava nel farci toccare con mano come il digitale sia in realtà una specie di nuova religione».
Così nuova questa ideologia della tecnica non è. Anche Leibniz, inventore delle prime calcolatrici, era convinto che, di fronte a ogni disputa o conflitto, sarebbe bastato dire: “Sediamoci e calcoliamo!”. Qual è la differenza fra quella di Leibniz e la metafisica digitale di un Reid Hoffman, il cofondatore di Linkedin?
«L’utopia del digitale è la prosecuzione estrema, con altri mezzi tecnologici, delle posizioni matematico-razionalistiche di Cartesio e Leibniz. L’idea che i nostri argomenti e i motivi delle nostre azioni siano pianificabili, controllabili e soprattutto calcolabili attraverso una macchina un metodo e algoritmi è l’esatto opposto dell’umanesimo che conosciamo da Dante, Petrarca, Boccaccio e Leonardo da Vinci. Ma la nostra lingua non funziona secondo criteri matematici, ma rimanda a una reciproca comprensione fra parlanti e ad empatia per le intenzioni dell’altro. All’origine del nostro linguaggio ci sono quindi premesse pragmatiche e mimetiche e una dimensione etica, e non modelli algoritmici».
Una figura molto bella al riguardo è il super robot Hal in “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick. Un’intelligenza sempre in bilico fra deliri di onnipotenza e stupidità infantile…
«Una metafora perfetta, Hal, e un film meraviglioso questo di Kubrick per descrivere il momento in cui la razionalissima utopia della Macchina si rovescia in delirio infantile o in uno dei peggiori incubi dell’umanità: la nostra sottomissione a robot impazziti».
È la distopia più tetra che vediamo al meglio nel Deus ex Machina di “Matrix”, dove l’intelligenza artificiale è diventata l’unico Dio dell’universo.
«Più che distopia il mondo di “Matrix” è, dal punto di vista filosofico, mera assurdità. In un mondo totalmente digitale avremmo problemi enormi già con la percezione di noi stessi. Se l’Assoluto è un Deus ex Machina sarebbe impossibile concepire la volontà e responsabilità del singolo individuo. Ma il paradosso dei paradossi di un universo digitalizzato è quello segnalato da Karl Popper».
A quale paradosso rimandava il filosofo della Logica della scoperta scientifica?
«Se il mondo fosse tutto così chiaro e trasparente come i neorazionalisti pretendono, allora saremmo già oggi in grado di dedurre tutto lo scibile. Col risultato che in un mondo iperdeterminato non vi sarebbe alcun futuro della conoscenza né progresso del sapere. Il nuovo umanesimo digitale di cui parlo deve disvelare queste aporie di un illuminismo digitale che immagina il mondo come un unico, gigantesco algoritmo».
L’intelligenza artificiale la diamo per scontata. Ma potrà mai esistere una “e-Person”, una persona elettronica?
«Non escludo in modo categorico che sia possibile un giorno per un computer sviluppare salti mentali. Più probabile è immaginare androidi programmati in modo tale da simulare dei processi mentali. Ma anche in tal caso, come ha evidenziato John Searle, resterebbe il fatto che il computer non è una macchina semantica: reagire come fa un software a un programma non equivale a intendere il significato di una lingua né le intenzioni di un essere umano».
Intanto in Arabia Saudita, il 25 ottobre 2017, è nata una nuova cittadina: l’androide Sophia, un robot a cui gli sceicchi hanno concesso cittadinanza, con tanto di diritti e doveri. È un controsenso politico concedere diritti, cioè dignità a una macchina elettronica?
«Anche la cancelleria Merkel ha già incontrato Sophia in Arabia Saudita e ci ha parlato. Ma credo sia uno dei nostri fatali inganni proiettare in una androide come Sophie stati che corrispondano a una psiche. Ripeto, nell’era del digitale stiamo ricadendo in una primitiva sfera magica e animistica».
Quel che manca ad ogni robot, per quanto superdotato o simulante, sarà sempre il sentimento dell’autostima, come spiega Avishai Margalit?
«Il fulcro di ogni umanesimo resta il nucleo della dignità o libertà intrinseca ad ogni individuo su cui Kant ha costruito la sua filosofia morale. Il primo articolo della Costituzione tedesca recita: “La dignità dell’uomo è inviolabile”. È questa finalità ultima della persona che Margalit traduce nel senso dell’autostima e che per forza di cose è al di là di ogni calcolo e macchina»
repubblica.it