Riaprire, perché? Anzi, per chi? Non c’è nessuno. Venezia paga la sua monocultura turistica. Succede come in certi Paesi africani che esportano solo un prodotto: se va in crisi quello, si ferma anche tutto il resto. La città vive di turismo e solo di turismo, e per farlo ripartire non basta un Dpcm. Così oggi saranno sicuramente più gli alberghi e i ristoranti con le serrande abbassate di quelli che le alzeranno. Del resto, sabato alle 20 in piazza San Marco a spasso c’erano esattamente sette persone: un vuoto pieno di bellezza per chi Venezia non l’ha mai vista così, ma un vuoto a perdere per chi a Venezia lavora.
Numeri certi non ce ne sono. Ernesto Pancin dell’Aepe, l’Associazione Esercenti Pubblici Esercizi, stima che ne resterà chiusa più o meno la metà e, finché le frontiere resteranno blindate e i voli bloccati, «sarà già molto fare il 30% del fatturato». Claudio Scarpa dell’Associazione Albergatori dà i numeri, e sono disastrosi: «Per luglio e agosto ci aspettiamo un tasso di occupazione delle camere del 15%. Per settembre, che a Venezia è altissima stagione, del 30». E calcola che l’epidemia sia già costata alla filiera, tutto compreso, «fra un miliardo e un miliardo e 300 milioni di euro». Solo l’Actv, l’azienda comunale dei trasporti, ci ha già rimesso 110 milioni e rischia di dover tagliare delle corse di vaporetti, con conseguenze disastrose per i residenti perché a Burano, poniamo, non è che ci si possa andare a piedi.
Girando per la città, gli esercenti confermano questa atmosfera crepuscolare da Morte a Venezia (lì però era il colera). Manca solo Dirk Bogarde con la tintura che gli cola dal panama. Prendete Domenico Scanziani, titolare di «Al colombo», ristorante storico dove il branzino al sale l’hanno mangiato anche Woody Allen ed Elton John: «No, lunedì non aprirò. Forse, se tutto va bene, fra una settimana. Intanto perché fra voci e controvoci non ho ancora capito a che distanza devo mettere i tavoli. E poi perché parte del mio personale è straniero, è andato a casa e per ora non può tornare. E guardi che per me è un dolore. Il locale è aperto sette giorni su sette, da mezzogiorno a mezzanotte. Quando il 12 marzo ho chiuso, avevo un groppo in gola. Mi sono chiesto: cosa ho fatto di male?». Dolore a parte, parliamo di schei… «Ho quindici dipendenti che stanno ancora aspettando la cassa integrazione. Aiuti per ora non ne sono arrivati, né dallo Stato né dalle banche. Diciamo che la chiusura mi è costata almeno 4-500 mila euro di fatturato. Ma per rimettere in moto un ristorante serve liquidità. E’ come la benzina per la macchina: senza, non parti». Del resto, che anche Arrigo Cipriani, «il» veneziani per eccellenza, abbia proclamato che non aprirà il suo «Harry’s bar» taglia la testa al toro dell’incertezza.
Cambiando l’ordine degli esercenti, albergatori per ristoratori, il risultato non cambia. Gioele Romanelli gestisce due hotel in centro, «Flora» e «Novecento». Nemmeno lui per ora riaprirà e anche lui ha i dipendenti, una trentina, in cassa integrazione teorica, nel senso che i soldi non sono ancora arrivati. Insieme con quasi duecento colleghi, ha fondato un movimento dal basso, dal nome (informale pure questo) «Contiamoci». Obiettivo: «ripensare la ripartenza» e le modalità stesse del turismo veneziano, a partire dalla ridiscussione dei contratti con i colossi delle prenotazioni on line tipo Booking o Expedia. «Dialogo e proposte» è il motto, per un’accoglienza più di qualità e magari meno di una quantità ormai insostenibile.
Interessante. Da decenni si denuncia il turismo selvaggio che ha trasformato Venezia in Disneyland: il lockdown non sarebbe l’occasione, finalmente, per ripensare la città?«Primum vivere – obietta Scarpa -. Per ora cerchiamo di resistere e di rimetterci al lavoro. Poi sì, si può pensare a cambiare. Ma il domani dobbiamo progettarlo oggi, a partire dalla divisione proprio fisica, con diversi accessi alla città, fra turisti residenziali e pendolari».
Insomma, il morbo infuria, il pan ci manca, ma (forse) sul ponte non sventola ancora bandiera bianca. Ne è convinto Giampietro Gagliardi, 27 anni d’amore per la sua città, portavoce di «Generazione 90», movimento civico e giovane che nell’emergenza si è attivato per portare la spesa a casa ai diversamente ragazzi. «Ed è stato palese che ormai i pochi veneziani sono per lo più anziani. I giovani vanno a studiare e lavorare fuori. Iniziamo a farli tornare e a puntare sulla formazione». Gagliardi non fa sconti: «Il sindaco Brugnaro che si fa riprendere mentre inveisce contro i vandali che devastano Venezia è lo stesso che per cinque anni ha venduto palazzi pubblici per farne alberghi. Benedetta la pandemia, se servirà a riflettere su cosa vogliamo fare di questa città».
Però anche lei sarà andato in estasi, come tutte le anime belle, per l’acqua verde e non marrone nei canali, le Mercerie che non sembrano più la metro di Pechino all’ora di punta e insomma Venezia che torna ai veneziani… «No. Noi abbiamo bisogno del turismo, perché viviamo di quello e perché Venezia è sempre stata una babele di popoli e di lingue, un luogo di incontri e di scambi. Questa Venezia vuota è molto bella. Ma non mi piace».