LA VERITÀ SULLA PAROLA FASCISMO.

 

LE IDEE
Era il settembre del 1942, quando in una delle sue trasmissioni alla Bbc, destinate al pubblico in Germania, Thomas Mann raccontò ai tedeschi le notizie (quelle che all’epoca poteva avere) sulla sorte degli ebrei in Polonia e nel resto dell’Europa occupata. pagina 35 Era il settembre del 1942, quando in una delle sue trasmissioni alla Bbc, destinate al pubblico in Germania, Thomas Mann raccontò ai tedeschi le notizie (quelle che all’epoca poteva avere) sulla sorte degli ebrei in Polonia e nel resto dell’Europa occupata. Parlò del ghetto di Varsavia, dei treni pieni di persone destinate a morire, dei gas con cui veniva effettuato l’assassinio di massa. Da figlio dell’epoca dei Lumi, il Nobel per la letteratura pensava che spiegando «come stanno le cose», enunciando «la verità dei fatti», facendo capire che il sangue degli innocenti ricadrà sulle teste del popolo dei carnefici, avrebbe portato i suoi connazionali a un moto di sdegno e di ribellione; per salvarsi l’anima e forse anche la vita.
Oggi, a 75 anni di distanza da quel discorso, a 72 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz e con i fascisti che dispiegano i loro vessilli nelle città del Vecchio continente (la rinascita del fascismo non è un fenomeno solo italiano) sappiamo che un discorso improntato a un modo di pensare razionale e razionalista, legato alla fede nella capacità degli umani di stare dalla parte del Bene, a patto che capiscano la situazione, ecco che un discorso così non è sufficiente per combattere il fascismo.
E sappiamo anche che la stessa memoria e la testimonianza sono messe in discussione. Insomma, la pregiudiziale antifascista sembra essere caduta.
Ágnes Heller, 88enne, ebrea, filosofa e quindi sia testimone della Shoah che analista della condizione umana dice: «Non basta indicare il Male perché le persone non compiano il male. La razionalità non è sufficiente. Prendiamo un bambino: dirgli di non torturare il gatto non basta, perché il bambino può sempre rispondere “fa male al gatto, non a me”». E quindi? «E quindi bisogna trovare un modo perché il bambino senta e non solo sappia che non occorre fare del male. Per citare Pascal, ci sono le ragioni del cuore».
Tra le ragioni del cuore che finora abbiamo coltivato ci sono appunto i racconti dei testimoni, i viaggi nei campi di sterminio, prima di tutto ad Auschwitz, immagini e filmati tramandati dall’epoca del nazismo. Tutti quanti, con funzioni pedagogiche e di monito: ecco a che cosa porta il fascismo, quindi “mai più”. Tuttavia, i testimoni (a cui tutti auguriamo una vita lunghissima) stanno per mancare del tutto. I viaggi ad Auschwitz certamente avvicinano alla dimensione dell’orrore, ma forse non sono sufficienti perché i liceali che visitano il campo capiscano con quanta facilità si possa diventare non solo le vittime ma anche i carnefici. Dan Diner, storico tedesco e israeliano, uno dei maggiori esperti delle vicende del secolo scorso e degli ebrei dice in proposito: «La Shoah segna il crollo della stessa episteme dell’Occidente. Si tratta di una catastrofe che ha reso inutili e obsolete le solite categorie con cui abbiamo pensato e che ha reciso il legame tra causa ed effetto». Conseguenza ne è che oggi, a ormai tre generazioni di distanza, siamo portati a vedere solo le cose che ci appaiono “concrete”, incapaci, dice Diner di creare metafore, astrazioni, generalizzazioni. Ecco, la parola stessa fascismo ci dice ormai poco, se non come riferimento storico. E poi, forse siamo troppo schiacciati sulla narrazione delle vittime.
È scandaloso pensarlo? Forse è solo paradossale. Prendiamo un esempio drastico ed estremo. Le immagini che conosciamo della Shoah. Nella loro stragrande maggioranza sono fotografie scattate dai nazisti alle loro vittime, un attimo prima di ucciderle. Il nostro sguardo sugli assassinati della Shoah, sulle persone condotte alle camere a gas (immagini che dovrebbero indurci a ripetere “mai più”) è lo sguardo dei carnefici; empatia sì, ma empatia estetica, l’estetica del Male. D’altronde, altre immagini non ne abbiamo, tranne pochissime e scattate in condizioni di quasi clandestinità.
E a proposito delle immagini. Jürgen Stroop che comandava le truppe naziste nel ghetto di Varsavia, dopo la sconfitta della Rivolta del 1943, scrisse un rapporto ai suoi superiori a Berlino. Vi accluse oltre cinquanta foto: documenti del suo trionfo.
Sono composte per lo più come i dipinti quattrocenteschi: a destra i buoni, i tedeschi; a sinistra i cattivi, gli ebrei. Manca il crocifisso in mezzo. Ma la cosa più importante, tra quelle foto ci sono almeno due immagini emblematiche. La prima, famosissima: il bambino con le mani alzate; vittima innocente. Chiunque l’ha vista decine di volte, riprodotta ormai all’infinito. L’altra, mostra tre insorti, due donne e un uomo, giovani, bellissimi, con le mani alzate ma serrate in un pugno, gli occhi che trasmettono fierezza e sfida; sullo sfondo, fiamme e fumo dei palazzi che bruciano. I tre sono l’immagine della lotta, dell’eroismo, della speranza. Ma quella foto, in cui malgrado se stesso un fotografo nazista immortalò un gesto arcaico ma che rinnova ogni combattente convinto delle proprie ottime ragioni del cuore, la conoscono solo gli esperti. Ecco, forse per combattere oggi il fascismo che rinasce e per recuperare una funzione politica della memoria, occorre tornare a parlare della Resistenza, più che delle vittime inermi.
La Repubblica.
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