Pubblicato da La Découverte, il secondo volume degli écrits di Étienne Balibar, Passions du concept. Épistémologie, théologie, politique, funziona come una potente macchina teatrale. «Theatrum philosophicum», s’intende, sulla cui scena si alternano alcune figure maggiori del pensiero moderno. Al fondo, tuttavia, si sente forte la presenza di Louis Althusser, «interlocutore privilegiato» con il quale Balibar discute e articola una personalissima epistemologia politica. La posta in gioco è chiara sin dall’inizio. Si tratta di immergersi nell’aporia che oppone da sempre – con Machiavelli – la voce del Principe e quella della Moltitudine, per imparare ad ascoltare, sui bordi del loro conflitto, la verità effettuale della cosa: «verità della politica, alla quale non cessiamo di correr dietro». Verrebbe da dire: questo è un testo di scienza politica.
Ma Balibar porta la spada nel concetto, lo taglia in due, ne scandisce la tensione interna. «Il grande strumento utilizzato dall’epistemologia per prevenire l’intrusione della politica nel campo dell’intelligibilità è la formazione di un metalinguaggio della scienza». Condizione di questa scienza politica è invece una poderosa e materialistica critica della scienza che si articola in tre sezioni: Storia della verità; Punti di eresia; Attualità polemiche.
LA PRIMA SEZIONE del volume è dedicata ad un «hapax legomenon» tipicamente francese, la cui origine risale, secondo Balibar, a un frammento di Blaise Pascal. Accostando storia della chiesa e storia della verità, Pascal mette in crisi – paradossalmente – la traditio veritatis: «la verità marcia sempre tra errori opposti». Ciò che conta non è «rappresentarla o definirla» ma «farle spazio al cuore della contraddizione». Questo tema teologico si conserva trasformandosi nella storia delle scienze di Cavaillès, Bachelard e Koyré, e viene ripreso da Canguilhem: tutti autori che sottolineano il «lavoro istituente il vero» attraverso gli ostacoli epistemologici che le ideologie scientifiche producono nel tempo.
L’errore è dunque «caratteristico dell’obiettività scientifica» perché essa non può prescindere dal «conflitto costitutivo del suo rapporto pratico all’immaginario e alla vita».
IN QUESTA VICENDA, a Michel Foucault tocca il ruolo di «guastafeste», dacché egli aggettiva il tema – storia «politica» della verità – e lo apre in due direzioni: si tratta ormai di «ricostruire il sistema dei rapporti di potere» che comandano «l’enunciazione della verità, la sua materialità discorsiva»; e d’altra parte di interrogare «la politicità intrinseca del dir vero» come «momento attivo nei rapporti di forza, posta in gioco per eccellenza nel differenziale tra dominazione e resistenza». Un guastafeste «aufklärisch», dunque, che sposta la partita dal senso agli effetti di senso, dall’idealità all’efficacia dei discorsi – una posizione per molti versi affine a quella di Nietzsche e del secondo Wittgenstein.
Raccogliamo dunque il risultato di questo primo atto. In fondo ciò che Balibar suggerisce è tanto semplice quanto prezioso: la «chiusura semantica» della formalizzazione scientifica è impossibile. Scienza e politica si scoprono imbricate l’una nell’altra, secondo «modalità sempre trasformabili».
L’ARTICOLAZIONE CRITICA di potere e sapere cui siamo giunti porta Balibar a rileggere i grandi testi foucaultiani, con particolare attenzione a Le parole e le cose, libro fondamentale per «tutta una generazione». Nell’armamentario concettuale di Foucault l’épistème svolge una tripla funzione: permette di periodizzare gli ordini del discorso, ne definisce l’unità transdisciplinare e ne consente la problematizzazione.
Tuttavia, sottolinea Balibar, «la categoria di épistème non ha significato indipendentemente dalla sua correlazione con un’altra : quella di punto di eresia. La coppia dialettica così costituita serve a segnalare la dimensione intrinsecamente conflittuale del sapere discorsivo». Le grandi epoche del sapere si mettono allora in movimento, al punto da rendere impensabile ogni statica e pacificata scienza normale.
Il rapporto tra dogma scientifico ed eresia è ormai costituito come motore della conoscenza: la biforcazione continua tra doxai contrapposte, apre a scelte che derivano «da antitesi necessarie a partire da premesse identiche». Bene. Ma l’alternativa non basta a Balibar. Leggendo Foucault egli cerca piuttosto «la possibilità per il pensiero di seguire due strade alla volta, qualcosa come un’avventura dialogica nel seno della razionalità», l’eresia «non come un bivio ma come un luogo di interazione degli estremi» che permette di riformulare i termini stessi della questione della verità.
SAREBBE QUESTO ALLORA «il punto cui si deve giungere per rimettere in questione l’ordine delle discipline. Conicidentia oppositorum». Torna qui Pascal: la verità teologica è sempre unità dei contrari come nei dogmi fondamentali dell’incarnazione, sul doppio corpo di Cristo, e della redenzione che è sempre libero arbitrio e grazia divina.
Qui il piano politico che avevamo conquistato sembra soffrire un ripiegamento teologico. Ma non è così, come si vede nel capitolo dedicato all’endiadi machiavelliana: esser principe, esser popolare. Il prospettivismo di Machiavelli, secondo Balibar, non chiede di scegliere tra il punto di vista sovrano e quello moltitudinario, ma permette di «creare una distanza che insegni al Principe come fare entrare nella sua strategia il punto di vista dell’altro». Viceversa, contrapporre icasticamente il potere costituente della moltitudine al potere del sovrano impedisce, secondo Balibar, di vedere il «circuito strategico dei differenti aspetti del potere e rende la politica reale impensabile».
SI DIREBBE: eccoci proiettati in una prospettiva di riformismo epistemologico. Può funzionare? Lecito dubitarne. Ma, ancora una volta, Balibar spiazza il discorso e lo riapre: «tutti i principati vanno sempre in rovina e quindi anche tutti i Prìncipi. In tal senso il Principe machiavellico è tutto tranne che sovrano». Modo di dire: ciò che conta è rendere il conflitto tra punti di vista politicamente produttivi. Tradurre, tradire, la violenza della contraddizione in istituzioni nuove. Ancora: coincidentia oppositorum, spalancata adesso sull’attualità.
Secondo Balibar l’attualità comanda il «bios theôretikos». Impossibile custodire canoni passati, il pensiero avanza per rotture. La filosofia contemporanea, in tal senso, deve essere considerata «una reazione tanto contro Hegel che contro Heidegger». Essa, in effetti, tenta di strappare al circuito dialettico della razionalizzazione capitalistica tanto l’irruzione dell’evento quanto la concretezza dell’esserci: la sua ascensione polemica cerca di definire «una soggettività senza soggetto sostanziale».
MARX E FOUCAULT disegnano per tutti noi due ipotesi diverse: l’uno lavora tecnicamente su «l’eccesso di astrazione» che supera l’individualismo borghese in socializzazione del comune produttivo; l’altro tenta di aprire la scatola dell’«individuazione come differenziazione normalizzata». Una prospettiva comunista e una liberale, dunque, anche se si tratta di «un liberalismo assai particolare e poco compatibile con le istituzioni esistenti».
Resta che, con Marx, si tratta di capire se il General Intellect, come individualità integralmente astratta e socializzata «rappresenta il ritorno di un mito faustiano o la descrizione di un orizzonte d’attesa per le lotte di classe e la speranza comunista»; mentre, con Foucault, si tratta di pensare «una logica di azione che massimizza gli spazi di libertà in modo che, aprendo virtualmente la prigione dell’anima, sorga un’alternativa che egli chiama, pratica di verità». Ancora un conflitto dunque, una differenza inconciliabile, un punto di avversità. Ma, se l’epistemologia politica di Étienne Balibar funziona, possiamo tenerci in questa tensione e pensarne la sintesi disgiuntiva.