L’oltraggio dell’ebreo populista che piace agli ultrà antisemiti

di Bernard-Henri Lévy
Ci pensano tutti, ma nessuno sembra volersi decidere a parlarne apertamente: Zemmour è ebreo e, tra i vari interrogativi che solleva la sua candidatura, c’è anche quello che concerne il significato dell’essere ebreo in Francia. È un argomento delicato da affrontare, ma non vorrei che per questo ci astenessimo dal farci delle domande; domande che riguardano sia ciò che il fenomeno Zemmour rivela di un sistema politico ormai in assoluto affanno; sia la frantumazione che provocano i colpi di questo nuovo pugile della politica a ciò che resta del sistema; sia il remake che sembra gestarsi del famoso «appello dei 43», che nel 1974 risucchiò l’elettorato di Chaban-Delmas e che, nel 2021, permetterebbe di arraffare l’intero bottino di guerra dei Repubblicani; sia, infine, le idee che sta manipolando, le infamie che escono dalla sua bocca o la penosa immagine che proietta della Francia, quando afferma che al paese «non importa nulla » del destino delle donne afgane, o che non sapremo mai la verità sul caso Dreyfus, o ancora che sono biasimevoli quei poveri piccoli assassinati da Mohamed Merah, perché le loro famiglie hanno voluto dar loro sepoltura a Gerusalemme.
Esprimerò un’opinione su ognuno di questi miserabili argomenti, nel caso si renda necessario farlo. Avendo io avuto occasione di discuterne quando lui non era nient’altro — come il Mussolini della prima ora — che un giornalista pieno di sé, conosco piuttosto bene i suoi trucchetti e posso tornarci su al momento opportuno, se questo pallone dovesse tardare a sgonfiarsi.
Adesso c’è un’altra questione che mi preme e che voglio sottolineare, e riguarda il danno che Zemmour reca, consapevolmente o no, alla parola «ebreo». E invito tutti a rifletterci con calma, a mente fredda. A questo proposito notiamo innanzitutto — volendo essere ottimisti — che Zemmour ha iniziato a frantumare non tanto l’elettorato di Valérie Pecrese, quanto quello di Marine Le Pen; questo fatto, a quarant’anni dalla nascita del Front National, non è necessariamente negativo.
Se avessimo voglia di riderci su, troveremmo divertente l’ironia — o l’astuzia; o la trappola — della Storia, che riesce a fare in modo che la vecchia estrema destra antisemita scelga di essere rappresentata da un uomo che un tempo non sarebbe stato certo di suo gradimento. Magari agli appassionati di storie degne di un romanzo dispiacerà che non ci sia più il Philip Roth di Operazione Shylock per scriverne, oppure il Roman Gary de La danza di Gengis Cohn , che immagina un vecchio nazista abitato dallo spirito di un piccolo ebreo sopravvissuto alla Shoah, da una specie di Dibuk che parla per bocca sua come un ventriloquo.
Ci saranno però anche i pessimisti che, osservando quest’uomo cavalcare l’onda delle peggiori ossessioni dell’estrema destra, temeranno che una tale ossessione alimenti, come forma di contrappasso, un antisemitismo di estrema sinistra che magari non vedeva l’ora di emergere, e di cui anche Zemmour sarebbe vittima. E un giorno ci sarà senz’altro qualche storico in grado di scorgere, in questa dinamica, un esempio — portato all’estremo — dell’affermazione di Hannah Arendt secondo cui esistevano «israeliti» talmente sopraffatti dalla propria «francesità» da arrivare al punto di provare vergogna di sé, come il Bloch di Proust! O degli ebrei tedeschi che erano andati a ripescare dal fondo dell’armadio l’elmetto appuntito della guerra del 15-18 quando, nel 1933, i nazisti andarono a prenderli per condurli nei lager! Perché non dovrebbe essere così anche Zemmour, i cui genitori, esattamente come i miei, a causa della loro nazionalità furono immolati dalla Francia di Vichy, nonostante lui vada in televisione a dire che Pétain li ha protetti?
Ma la domanda più scottante è un’altra ancora, si spinge oltre. Osservo la rabbia con cui abbraccia la peggior retorica, il discorso più criminale di Barrés o di Maurras, come se volesse cavare gli occhi alla sinagoga per guardare solo alla facciata — martoriata dall’incendio — di Notre-Dame. Osservo quel suo modo di avventurarsi nella zona paludosa, fangosa, del fascismo francese, e sguazzarvi a suo agio, come un pesce nell’acqua; caracollarvi come un Bonaparte carnascialesco sul ponte di Arcole. Lo vedo calpestare tutto ciò che, del legato ebreo alla Francia, ha attinenza con la morale, con il senso di responsabilità nei confronti degli altri, o di quell’antico modo di essere, colmo di bellezza, che un tempo, sulla terra, simboleggiava le figure erranti, straniere, e che oggi dovrebbe ispirarci nell’intendere l’ospitalità ai migranti. Questo suo trasgredire rivela tratti che fanno gelare il sangue nelle vene.
Lo dissi cinque anni fa agli ebrei tentati dal trumpismo: allearsi con un soggetto simile, sospendere la propria capacità di giudicare al cospetto di una simile volgarità, inchinarsi di fronte al cattivo pastore che ha rispetto solamente dei potenti, del denaro, degli stucchi dorati dei palazzi che possiede, equivaleva a un suicidio. Ripeto la stessa cosa agli ebrei francesi che abbiano la tentazione di identificarsi con il semplicismo funesto di Éric Zemmour: quella sua hybris nazionalista e razzista, la sua crudeltà, il rinunciare alla generosità ebrea, alla fragilità ebrea, all’umanità e all’essere erranti quasi per fisiologia; quella sua ignoranza, non delle schede di lettura di cui si è imbevuto, ma del vero sapere, scritto con il sangue nella memoria delle nostre famiglie, e che implica non perdere l’equilibrio quando la Storia curva bruscamente, e mantenerci saldi quando l’acido della persecuzione ci schizza addosso, ebbene, tutto ciò reca offesa alla parola «ebreo», di cui ogni ebreo è custode, a meno che non ne prenda pubblicamente le distanze.
Éric Zemmour non è certo il primo a pensare che si possa essere ebrei e, al contempo, ultrapopulisti. Ci saranno sempre, per fortuna, altri ebrei disposti a fargli notare che non esiste alcun obbligo di scegliere tra Claudel e il Talmud; che Claudel l’imposizione di una simile scelta l’avrebbe rifiutata. Lo spettacolo di quest’uomo, di un vuoto così grande, dell’infatuazione di sé, del suo sinistro esultare non solo quando profana il proprio nome, ma in particolare quando si trasforma nello xiloforo di tutto ciò che, da millenni, la speranza ebrea combatte, è di un’oscenità insopportabile. All’orizzonte, un disastro politico. Ma è in pericolo anche la casa metafisica sotto il cui tetto ha finora trovato riparo, dalla notte dei tempi, una parte del senso di umanità della Francia.
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