Nel Movimento senza «capo» il primo round lo vince Di Maio

È Alfonso Bonafede il nuovo capodelegazione governativo di un Movimento 5 Stelle che impara giorno dopo giorno a vivere senza un leader formale. La scelta è avvenuta, dicono fonti grilline, «per acclamazione» nel corso del vertice dei ministri e sottosegretari (assente Di Maio) convocato nella serata di ieri dal reggente Vito Crimi. È solo una delle tante decisioni che il M5S deve prendere dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da «capo politico». Sono passaggi che un tempo sarebbero stati quasi scontati e che oggi, nel M5S senza capi e in attesa di chiarirsi le idee, potrebbero diventare uno stillicidio. Anche perché tra le richieste di Zingaretti, l’esito delle regionali e lo scenario politico che ne consegue, pare rafforzarsi l’esigenza per il M5S di esplicitare l’investimento strategico sulla coalizione col centrosinistra.

L’urgenza di questa scelta istituisce una specie di referendum permanente tra due opzioni e consolida due possibili correnti, in altre parole crea dinamiche che al di là delle semplificazioni mediatiche non sono mai esistite veramente nel M5S. Ecco allora che la scelta di Bonafede si carica di un peso simbolico e assume un significato politico inequivocabile: il ministro della giustizia è considerato vicino a Di Maio e sostiene un M5S al di fuori degli schieramenti. La maggioranza dei parlamentari 5S invece pareva preferire Stefano Patuanelli, da sempre meno prudente a stringere i nessi di questa maggioranza.

L’incarico a Bonafede arriva con un paio di ore di ritardo e ottiene il primo effetto di oscurare l’inizio della prima assemblea dei parlamentari dopo le dimissioni di Di Maio. In ogni caso, la nomina del guardasigilli conferma che il ministro degli esteri ha mantenuto la consegna del silenzio ma ha mosso le sue pedine. Al posto suo, in questi giorni, hanno parlato quelli che gli sono vicini. Hanno rilanciato la linea dell’ex leader cercando di ridefinire le regole d’ingaggio e il campo di forze della nuova fase del M5S, ribadendo che bisogna mantenere la barra dritta del Movimento come soggetto post-ideologico e libero da appartenenze perché «né di destra né di sinistra».

Ieri il sottosegretario agli esteri Manlio Di Stefano, uomo-ombra di Di Maio alla Farnesina e nel dibattito interno, ha lanciato un altro amo, riconoscendo che si deve mettere mano al meccanismo che disciplina il funzionamento del M5S. «Ci siamo fatti del male con regole troppo limitanti», ha scritto su Fb Di Stefano, che poi ha menzionato il processo di formazione del personale politico, la questione dei soldi e delle restituzioni dello stipendio, le regole d’ingaggio della piattaforma Rousseau e l’esigenza che il prossimo «capo politico» lavori a tempo pieno e non collezionando incarichi ministeriali come invece era capitato a Di Maio.

Potrebbe essere un primo segnale del fatto che i 5S che sostengono l’ipotesi «né di destra né di sinistra» sono disponibili a venire a patti su riforme interne finora considerate tabù nel M5S. E cosa succederebbe se sul piatto Di Maio dovesse mettere la rimozione del tetto dei due mandati, mai esplicitata ma necessaria più di altre per la sopravvivenza del ceto politico appena costituitosi? Sarebbe la mossa che potrebbe fare la differenza nella partita interna.

Il fatto che la pressione sia forte e che le divisioni interne rischino di diventare lacerazioni irreparabili è confermato da una tentazione che aleggia da pochi giorni: da quando Crimi ha discusso coi facilitatori nazionali degli Stati generali previsti per metà marzo, aleggia la possibilità concreta di procrastinare la conta interna a data da destinarsi, con la scusa del referendum sul taglio dei parlamentari del 29 marzo. L’evento torinese sarebbe una specie di congresso al buio, un appuntamento senza contorni di precisi di cui ancora non si conoscono regole, modalità di partecipazione e soprattutto portata dello scontro interno.

Ma chi spera in un rinvio ha un punto debole non da poco: il calendario del voto regionale e le scelte in vista di quella campagna elettorale impongono chiarezza e tempi certi. Regioni in bilico e in attesa di indicazioni chiare come Liguria, Campania, Puglia non possono aspettare a lungo che si scelga una linea politica.

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