“Smise di sentire il fragore del vento, che divenne il rumore del suo telaio.”

C. Dickens, Tempi Difficili 

“Ho capitalizzato l’anno della pandemia” così dice Federica, laurea record in Giurisprudenza conseguita in tre anni e sei mesi, ovviamente 110 e lode, su Repubblica (2.06.21). “Nel 2020, chiusa in casa, invece che deprimermi ho fatto ben 12 esami” e tutto è bene quello che finisce bene, no? No, evidentemente. Anzi, questa è soltanto la punta dell’iceberg, cioè la parte più superficiale d’un problema sotterraneo, che, ovviamente, sarebbe estremamente sbagliato ridurre semplicemente al caso specifico ch’è sopra riportato, ch’è solamente un sintomo. La questione, infatti, è decisamente più complessa, e s’intreccia profondamente con la trama essenziale della nostra società, interamente, condizionandone l’esistenza in toto, e non eventualmente nella sporadicità ditaluni casi che, tuttavia, per quanto particolari, possono fornirci, come pretesto, indizi sufficienti per afferrare la questione in un senso più generale.

Nello specifico, il tema in questione è, in questo caso, già perfettamente riassunto nell’uso abituale, quasi colloquiale, della verbo “capitalizzare”, e quindi d’un certo “gergo economicistico”, applicato ad eventi personali della vita privata d’una persona, che con l’economia avrebbero, o forse  a questo punto bisognerebbe dire che dovrebbero avere, poco, se non nulla, a che fare. Uno dei tratti tipici della nostra contemporaneità, che si presenta come un mondo “integralmente mercificato” o, per così dire, “assolutamente capitalistico”, è infatti quello di presentare, tra le numerosissime sue forme di “analfabetismo funzionale”, anche quella che si trascina dietro una vera e propria tendenza, avolte persino incapacità, di pensare il mondo che abitiamo in termini che non facciano, più o meno direttamente o indirettamente, riferimento a certe categorie economiche ben precise, che l’ideologia dominante, quella neo-liberista, inocula opportunamente nelle coscienze delle masse, tramite vere e proprie campagne di “bombardamento mediatico”, al fine di ottenere una “egemonia culturale”.

C’è un passaggio, in verità piuttosto sottovalutato, dei Manoscritti del ’44, detti “economico-filosofici”, di Karl Marx, nel quale viene appunto messa a tema questa contraddizione tra economia e vita, con una lucidità e una lungimiranza, a parere di chi scrive, eccezionali.

“Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, a ballo, in osteria, quanto meno pensi, ami…”

insomma, scrive Marx, quanto meno vivi, “tanto più risparmi” ed ingigantisci il tuo tesoretto, il tuo capitale.

“Quanto è più grande la tua vita alienata”, ovvero risparmiata, “tanto più accumuli del tuo essere estraniato, e tutto ciò che l’economista ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza”.

Ovvero, come appunto si diceva, si tratta di “capitalizzare” la tua vita-non-vissuta, sostituendola con un vero e proprio “surrogato”. “Tutto ciò che tu non puoi” conclude il filosofo di Treviri “lo può invece il tuo denaro”. Queste poche frasi, folgoranti, sono tanto interessanti perché, al di là del passare del tempo e del modificarsi dei modi di produzione, finché il modello di sviluppo sottinteso resterà quello del modo di produzione capitalistico, questa sarà, essenzialmente, la sua natura, e queste saranno le sue conseguenze sulla vita quotidiana di ciascuno di noi, che non è fatta per rispondere armonicamente ai ritmi frenetici del mercato, quanto piuttosto per entrarvi in contraddizione. Questo, che forse può non risultare immediatamente evidente, lo si percepisce invece subito quando ci si ferma a riflettere sul caso specifico che abbiamo detto all’inizio, in cui “fare fruttare”, appunto “capitalizzare”, la vita che non si ha vissuto, significa proiettare quella stessa sulla accumulazione di “crediti”, ovvero sulla promessa d’una vita da riscuotere domani, in cambio della rinuncia alla vita di oggi. Per parafrasare il passo di Marx, potremmo anche dire che “quello che non puoi tu, studente, possono i tuoi crediti” e, pertanto, accumulane più che puoi, nel minor tempo possibile (perché, si sa, il tempo è denaro) e senza fermarti a considerare quanto tu possa sentirti inutilmente “depresso” in questo momento; non è forse un caso che, negli anni ’20, uno dei momenti in cui il modello economico capitalistico ha più chiaramente mostrato i danni dei suoi squilibri strutturali per la vita, cioè la famosa “crisi” generata dal crollo di Wall Street, sia poi passata alla storia come “grande depressione”.

Karl Marx

Capitalizzare tanto, quindi, ma anche in fretta e senza perdersi in “cattive sentimentalità” che non portano nessun tipo di profitto. La premessa che, implicitamente, sottende a tale ragionamento, è squisitamente positivistica, o, per usare una parolaccia, “progressista”. L’idea è, infatti, non tanto che da ogni disgrazia si possa e si debba tirare fuori del “buono”, produttivamente, quanto piuttosto che tali “disgrazie”, effettivamente, tanto disgraziate poi non siano; anzi, è preferibile chiamarle, e nel lessico economicistico dominante sono così chiamate, magari “opportunità” di crescita, oppure anche “occasioni” di miglioramento, o, per i più fanatici, persino delle vere e proprie “benedizioni”, nel trionfo assoluto della “teologia-economica”. La crisi, pertanto, si eclissa, sostituita dalla volontà di “capitalizzare” a tutti i costi, nascondendo sotto il tappeto tutte quelle criticità che, soprattutto se ignorate, a lungo andare sanno logorarti nel profondo, e presentarti un salatissimo conto psichiatrico più in là nel tempo. Infatti, è una strategia tanto perversa, quanto, nell’immediato, funzionale, quella di estraniare da sé una vita invivibile, nella speranza che ti venga risarcita, e con gli interessi, in un non meglio definito “domani”. Ciò nonostante, questo “patto col diavolo” non ha niente di nuovo; è la stessa identica dinamica attraverso la quale, come già Marx denunciava due secoli fa, il capitale e il suo modo di “fare affari” con le nostre vite riesce a riprodursi in seno alla società, da parassita.

Il tema, a questo punto, diventa evidentemente quello del tempo. Il problema del tempo è la questione centrale, tanto nell’economia, quanto nella vita. Un lavoratore, come tutti sanno, è pagato ad ore. Marx sostiene che la quantità di lavoro che il capitalista “compra” dal lavoratore, in sostanza, coincida con la quantità di tempo che questi deve “fare fruttare” per entrambi, ovvero lavorando sia per sé, e cioè per guadagnarsi il salario, sia per il padrone, e cioè per accumulare sufficiente profitto per il secondo. Questa dinamica di “valorizzazione del capitale”, che Marx riassume nel suo celebre schema D-M-D’, ha sicuramente il pionieristico punto di vista del critico dell’economia politica, che interpreta acutamente anche il lavoro medesimo come una “merce” speciale, e cioè, appunto, come una “forza-lavoro”, una merce che ha la capacità specifica di creare valore nelle altre merci. D’altra parte, bisogna anche ricordare che Marx è un attento lettore dell’economia classica, Smith e Ricardo in primis, e sa benissimo come, in questi, il lavoro venga interpretato più generalmente come quella certa “capacità” o “possibilità” d’un uomo di risparmiare a sé stesso quella fatica che può far fare ad altri, ovvero ancora esattamente quell’idea essenziale, espressa nei Manoscritti, di risparmiare vita, in cambio di “profitto”, e quindi, in ultima analisi, di, per così dire, “raddoppiare” la propria vita. La vita “infruttuosa” è quella “buttata”, in netto contrasto con quella “risparmiata”, che viene fatta così fruttare e che genera dunque profitto (ma anche, ed è bene sottolinearlo, potenziale di conflitto).

Ora, che questo modello, venduto come “vincente”, sia riuscito ad imporsi, anche sul piano culturalenascondendo tutti gli elementi di sfruttamento e di alienazione che tale “frammentazione” della vita e del “tempo vissuto”, di necessità, si portano dietro, e al punto tale da essere introiettato e considerato ormai pressoché di uso comune, e persino nel linguaggio, non è una cosa che dovrebbe destare poca preoccupazione. Detto in parole povere, il lavoro, che dovrebbe avere come suo scopo la realizzazione della vita, diventa fine a sé stesso, in una vera e propria inversione del mezzo con il fine, e succede che, se prima si doveva lavorare per vivere, ora tocca vivere per lavorare. Eppure, se si trattasse solo di questo, saremmo ancora in un’ottica classicamente capitalistica. In realtà, mentre nel modello industriale studiato da Marx l’elemento portante dell’economia coincide con la fase della produzione, com’è sacrosanto che sia, è tuttavia altrettanto vero che la logica capitalistica attuale s’è contraddistinta per avere spostato decisamente il focus del meccanismo, per così dire, dal produttore al consumatore. L’elemento consumistico è la peculiarità della fase attuale dello sviluppo capitalista, una caratteristica che, sebbene analizzata e criticata in nuce anche già da Marx ne Il Capitale, non si sarebbe potuta dispiegare, in tutta la sua potenza, senza la comparsa sulla scena della società totale, o “massificata”, vero e proprio preludio al “capitalismo integrale” odierno, che, più precisamente, si dovrebbe definire “tecno-capitalismo”. In questo tipo di modello economico, l’individuo, in quanto consumatore, è formalmente libero di scegliere tra una vasta gamma di opzioni, ma sostanzialmente impedito a decidere per il contenuto delle stesse. Il paradosso è, da un lato, che la società totale, di massa e globalizzata, ha affogato l’individuo nel vastissimo mare del villaggio globale, fino a farlo del tutto indifferente, e nonostante ciò, dall’altro lato, esso è il risultato sempre più atomizzato d’una vera e propria “riduzione molecolare”, perfettamente convergente. Da una parte, quindi, la massima estensione dello spazio a sua disposizione, letteralmente l’intero pianeta e le “sterminate praterie” di internet, dall’altra, per reazione, la sua “atomizzazione sociale” con conseguente riduzione ai minimi termini della sua vita vissuta, non più fatta di “momenti” ma di “attimi”, ovvero “atomi di tempo”,  tanto inafferrabili e precari, quanto il modello “flessibile” di lavoro a cui gli si chiede d’adeguarsi.

In una siffatta ottica, l’individuo risulta essere potenzialmente più rilevante da consumatore di merci, piuttosto che come produttore di valore. Il capitale, per così dire, è giunto ad un tale grado d’accumulazione di sé stesso, da valorizzarsi tecnicamente da solo, ovvero da “auto-valorizzarsi”, in quei flussi finanziari da capogiro che, nel tempo d’un battito di ciglia, sono capaci di spostare da una parte all’altra del globo una quantità esorbitante di valore, sotto la forma di debito/credito, e tanto da potere arrivare persino a determinare, come accade, la sorte felice o infausta d’una intera nazione. In parole povere, il modo di produzione capitalistico, che sempre deve rinnovare il proprio paradigma per non cessare d’esistere, è arrivato, dopo una numerosa serie di crisi cicliche di sovrapproduzione delle merci, a subordinare, nella catena di valore, la produzione delle stesse al loro consumo. Com’è ovvio, e se non lo fosse basterebbe guardare l’operato delle grandi multinazionali che in questo se la fanno da “nuovi padroni”, tale direzione solleva almeno due problemi fondamentali e gravissimi, e cioè, in primis, la non-illimitatezza delle risorse che il nostro pianeta può fornire come “fondo” per il sostentamento di questo progetto consumistico totale, e, secondariamente ma non per importanza, l’assoluto assoggettamento della vita degli individui alle logiche dei “grandi moti” della finanza, che Rousseau definiva essere una pratica “indegna d’un popolo libero” e non a caso. Se in un modello, per così dire, “vetero-capitalista” ocapitalista classico,  basato sulla produzione industriale in grande serie, l’idea alla base era quella della “obsolescenza” della merce, ovvero della sua impossibilità di venire consumata oltre una certa data, nel nuovo modello tecno-capitalistico, dove il consumatore è sufficientemente liquido da potere essere de-costruito e ri-costruito secondo le esigenze di mercato, non è più la merce ad avere una data di scadenza, ma la vita stessa del consumatore, fattasi merce e cioè valore, ad essere “programmaticamente obsolescente”, ovvero consumabile solo dentro a certe tempistiche precise, ea doversi riaggiornare periodicamente, in una perfetta analogia tra le cosiddette “crisi cicliche” del mercato e quelle della vita personale di ciascuno di noi.

Del resto, non è certo una novità. Il capitale, per finanziare sé stesso, ha sempre trovato negli individui la sua capacità originaria di accumulazione del valore. Basti pensare all’enorme ruolo che ha avuto, per la rivoluzione industriale di fine settecento, il fenomeno mercantilistico del cosiddetto “triangolo commerciale” della tratta degli schiavi neri, il vero e proprio motore che ha reso possibile quell’enorme “salto tecnologico” poi passato alla storia come la “nascita dell’industria”. Già in questo tipo di “capacità accumulativa”, che Marx stesso descrisse bene come il modo specifico tramite cui la “macchina capitalistica” s’avvia, è implicita una tensione all’annullamento della vita individuale, a vantaggio della sua estraneazione, o meglio, in ultima analisi, della sua espropriazione. Non solo, pertanto, la tendenza generale a concentrare nelle mani di pochi, sempre meno, i profitti generali del meccanismo capitalistico, e cioè di socializzare le perdite e privatizzare i profitti, ma anche come un certo tipo di “vocazione alla spersonalizzazione”, allo svuotamento dell’individuo astratto e alla sua trasformazione in altro, in valore mercificato ed alienato, e quindi in espropriazione e profitto. Ed è questa, forse, la conseguenza più grave del modello di produzione e riproduzione della vita che continuiamo imperterriti a perpetrare, nella nostra esistenza come società, e spesso persino sventolando, in maniera francamente ridicola, il vanaglorioso vessillo dell’ineluttabilità del progresso, come se, ad attenderci dietro la duna, non ci fosse l’ennesimo deserto, ma quelle “magnifiche sorti e progressive” che Leopardi tanto irrideva, riconoscendo probabilmente in loro l’ultimo alibi di coloro i quali non vedono più in là del proprio naso. Ma se, anche solo per un momento, fossimo in grado di voltare indietro la testa, e passassimo in rassegna con la vista tutto quel mondo di cui, ci dice Marx, abbiamo fatto un’immane distesa di merci, forse ne vedremmo la desolazione, e forse, per un istante, ci sembrerebbe persino assurdo di averlo barattato con le miserie dell’economia.