Max Weber La politica è vocazione

Un secolo fa se ne andava il grande intellettuale tedesco. Sociologo, storico della cultura e delle religioni, filosofo, ci ha lasciato una lezione più che mai attuale: nella vita pubblica bisogna saper rischiare
di Carlo Galli
Max Weber (1864-1920) è un padre della sociologia; è un raffinato metodologo; è un poderoso storico della cultura, delle religioni, della musica, del diritto e dell’economia, come appare dalla gigantesca opera postuma Economia e società , organizzata dalla vedova, Marianne — che gli dedicò anche un’imponente biografia. Ed è uno scienziato della politica, a cui si deve, tra l’altro, la classificazione del potere in tradizionale, razionale, carismatico.
È stato una figura complessa: rigoroso professore universitario, fu lungamente tormentato da crisi nervose. Ma fu anche un polemico pubblicista, un trascinante oratore (le conferenze del 1919, La scienza come professione e La politica come professione , sono due capolavori del pensiero politico occidentale) e un appassionato analista della politica del suo tempo. L’attività politica lo coinvolse: fu a Versailles per le riparazioni dei danni di guerra; e fece parte della commissione che preparò la Costituzione di Weimar. Insomma, Weber ha cercato di comprendere il passato mentre si è sforzato di decifrare il proprio tempo, tentando anche di «mettere le mani negli ingranaggi della storia».
Della politica ha dato un’interpretazione drammatica: ha sempre sottolineato che accanto agli elementi razionali che la qualificano vi è in essa un’origine non razionale (legata a motivazioni religiose), illegittima, rivoluzionaria — e ciò, fino dai comuni medievali. L’età moderna vede l’emergere di forze gigantesche, lo Stato e il mercato; entrambi razionali, sia pure con modalità differenti, ed entrambi destinati a confluire in un’unica «gabbia d’acciaio» tecnico-scientifica: la burocrazia e l’industrialismo, a cui consegue la democrazia di massa. Ma il destino delle società occidentali non è solo di finire racchiuse nell’autoreferenzialità della ragione tecnica, nel «dominio». La modernità è anche «politica», cioè rischio, lotta, sforzo di affermazione nazionale. Il suo orizzonte non è solo l’uniformità della ragione, rassicurante e soffocante, ma è anche il pluralismo dei grandi soggetti politici collettivi, il «politeismo dei valori », l’irrazionalismo etico del mondo, il conflitto fra le diverse «convinzioni ». La politica è un destino e un mistero: questo ci dice lo scienziato alto-borghese, che ha il coraggio di guardare fino in fondo l’abisso delle sorti umane — l’inquietudine di Nietzsche, suo maestro segreto, è qui evidente.
Questa diagnosi del presente non spinse Weber all’estremismo ma a ricercare posizioni di equilibrio, benché precario; lo portò ad affermazioni di «responsabilità» verso lo Stato e a polemizzare contro estetismi e pessimismi profetici (criticò Spengler e i pangermani-sti), contro avventurismi e dilettantismi. Così, da una parte disprezzava il «carnevale della rivoluzione» a cui assistette in Baviera, e fu sempre anti-socialista in quanto deluso dalla mancanza di profondità intellettuale di un partito che in realtà si limitava a proseguire la via già aperta dal capitalismo; e d’altra parte era angosciato per l’incapacità tedesca di pensare e praticare la politica.
La struttura elettorale e costituzionale della Germania guglielmina — autoritaria, centrata sul potere del Kaiser e dell’esercito — è per lui certamente razionale (in quanto burocratica e militarista) ma a-politica: in Germania non ci sono politici abituati ad affrontare il rischio della lotta, perché il parlamento non ha potere reale e perché in esso non avviene la «selezione dei capi », come nelle potenze democratiche. È questa insufficienza politica che sta facendo perdere la guerra alla Germania, sostiene Weber nel 1918. La Germania — ma in realtà chiunque voglia esistere nel mondo — ha bisogno non solo di ordine razionale ma di politica, e non può sfuggirne.
Il weberiano «politico di prof essione » — selezionato in parlamento nella lotta fra i leader dei partiti, e proiettato verso un forte potere di governo — non è un dittatore totalitario, ma un individuo responsabile e disincantato, eppure appassionatamente (ma non ciecamente) al servizio di una causa. Un politico che vive la politica come Beruf — come professione e come vocazione —, consapevole che essa ci afferra mentre noi cerchiamo di afferrarla, perché è sia routine amministrativa, sia inevitabile democrazia, sia, come orizzonte ultimo, conflitto per il potere su scala storica.
Questa politica esistenziale, questo intreccio di tragicità e di complessità, al tempo di Weber era ancora in mano agli Stati europei, ma oggi solo pochi soggetti sanno praticarlo — Cina, Stati Uniti, Russia (mentre l’Europa se ne guarda bene), mettendo in gioco tanto la razionalità della tecnica e dell’economia quanto l’azzardo della volontà di potenza, al servizio di un preciso progetto di civiltà.
La politica per Weber è un destino non rassicurante proprio per l’incertezza che ha in sé; ma è al tempo stesso un dovere. Come Machiavelli, a proposito dello scontro fra virtù e fortuna, ingiungeva al politico (al principe) di non «abbandonarsi » mai, così nel portare alla luce l’intreccio inesorabile di ragione e non ragione che è lo sfondo ultimo della politica e della vita umana, Weber consegna al politico il compito di proseguire la propria azione, e di dire «non importa, continuiamo! ». Che Weber ci parli ancora, o che oggi non sappiamo comprenderne la grande lezione di serietà e di coraggio, è, a questo punto, un problema più nostro che suo.
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