di Marzio Breda
Una staffetta decisa all’improvviso per un ministero di potere pesante e da sempre «difficile», in particolare adesso, alla vigilia dell’Expo e con una questione morale cui gli italiani perbene non si rassegnano. Un passaggio (non definitivo) dal quale dipendono l’azione di governo e gli stessi equilibri della maggioranza.
Ecco la posta in gioco nel faccia a faccia tra presidente della Repubblica e premier, ieri al Quirinale. Il decreto con il quale Sergio Mattarella ha accettato le dimissioni di Maurizio Lupi dalla guida delle Infrastrutture e, congiuntamente, ha formalizzato l’interim a Matteo Renzi, era stato perfezionato già venerdì scorso. Perciò non si è sprecato neppure un minuto in procedure burocratiche, mentre i due interlocutori cominciavano a valutare con calma alcuni nodi da sciogliere. Ciò che spiega il carattere ancora istruttorio dell’incontro, che il capo dell’esecutivo ha usato per condividere con il padrone di casa dubbi e interrogativi.
Sul tavolo anzitutto i tempi della «supplenza»: brevi, ma non proprio brevissimi, forse una quindicina di giorni, dato che Renzi intende «fare ordine» nella struttura del dicastero. Cancellando, tanto per capirci, il principio dell’inamovibilità di funzionari e direttori generali divenuti nel tempo onnipotenti, prima di affidarlo a un nuovo responsabile. Una figura che — e su questo schema di garanzie contro le criticità e di maggiore trasparenza entrambi si sono trovati d’accordo — dovrebbe preferibilmente essere un politico piuttosto che un «tecnico», come qualcuno almanacca ormai da giorni, tanto da azzardare perfino un totonomi.
Anche l’ipotesi di «spacchettare» in due il ministero, consegnando agli uffici del premier la cosiddetta «struttura di missione» (cui spettano le scivolose decisioni sugli appalti per le opere pubbliche, grandi e meno grandi), è stata cassata. Non a caso il Quirinale ha fatto presente che ogni possibilità di scorporo o di delega si scontrerebbe fatalmente con la legge Bassanini. Un ostacolo che bisognerebbe aggirare in corsa, cambiando con un provvedimento ad hoc il numero prefissato di dicasteri. Ciò che sarebbe in concreto irrealizzabile.
L’iter della transizione è insomma avviato, ma fin da questi esempi si capisce che trovare un successore a Maurizio Lupi e inaugurare una stagione diversa alle Infrastrutture sarà una faccenda piuttosto laboriosa e subordinata a diverse variabili. Con tempi, metodi e prospettive da mettere sullo sfondo. Come il problema degli equilibri della coalizione, magari in progress, ma certo non azzerabili per la stessa tenuta del governo. O come l’esito del prossimo voto regionale di maggio, che potrebbe determinare sorprese di cui il presidente del Consiglio potrebbe dover presto tenere conto, mentre non sembra in discussione lo scenario di un rimpasto, echeggiato da più parti.
Questioni politiche — come si vede — sulle quali Mattarella non intende interferire, lasciando a Renzi le proprie responsabilità, che del resto il premier rivendica secondo una logica di affermare una «democrazia decidente». Del resto, i rapporti tra i due (rapporti cordiali e reciprocamente rispettosi) sono stati subito improntati dal capo dello Stato a uno schema tale da evitare sovrapposizioni o confusione di ruoli. Sono cioè, si sottolinea dal Colle, strettamente «istituzionali» e comunque «non confrontabili» con altri momenti — anche quelli non poi così lontani — della nostra parabola storica, quando incombevano ben altre emergenze rispetto a oggi.
E lo stesso significato «istituzionale» ha avuto pure un altro incontro importante di ieri, al Quirinale. Quello con i leader di Cgil, Cisl e Uil, che hanno espresso al presidente le preoccupazioni sul dossier-lavoro e sulla tenuta sociale del Paese. Argomento che ha acceso la sensibilità di Mattarella.