L’umanità è in fuga.

Quella che vi apprestate a leggere non è solo un’intervista (in esclusiva per «la Lettura»). È il più recente capitolo di quella sorta di romanzo critico che uno tra i più attivi e influenti curatori del nostro tempo — Hans Ulrich Obrist — e uno tra i più controversi artisti — Ai Weiwei — stanno elaborando da diversi anni. Il prologo: Ai Weiwei Speaks , un volumetto uscito da Penguin nel 2012 (in Italia: Ai Weiwei parla , traduzione di Alessandra Salvini, Il Saggiatore), poi, in una versione più ampia, nel 2016. Periodicamente, questo romanzo viene aggiornato, integrato, arricchito. Per comporlo, Obrist si serve di diversi media: filma, registra, manda mail. Spesso dialoga a distanza con l’artista cinese ricorrendo a Skype. Altre volte approfitta di mostre, eventi e dibattiti per interrogarlo.

È nato così un diario pubblico, il cui tono non è mai formale né specialistico. Chi lo legge ha la sensazione di assistere a una conversazione tra due amici. Il canovaccio resta sempre il medesimo. Ogni capitolo di questo work in progress muove da episodi specifici: una mostra, un’opera, un fatto di cronaca. Come è sua consuetudine, Obrist si mette al servizio dell’intervistato. Si pone in ascolto della sua voce, sollecitandolo su questioni estetiche e su urgenze civili. Da queste confessioni emerge il profilo di un intellettuale «luterano». Ai Weiwei pensa l’arte in maniera totale. Sulle orme della tradizione delle avanguardie primonovecentesche, la intende come indifferenza nei confronti della specificità delle singole tecniche e come sperimentazione infinita in diversi ambiti linguistici (pittura, scultura, architettura, cinema, scrittura). Ma anche come esperienza comunitaria aperta, pronta a farsi contaminare: esemplare l’installazione immersiva, concepita ora nel Park Avenue Armory di New York insieme con gli architetti Herzog&de Muron.

Ma l’arte, per Ai Weiwei, si configura soprattutto come pratica militante. Forma spietata di testimonianza. Strumento per aiutare a comprenderne le contraddizioni del presente. Da queste premesse sono nate installazioni che ci parlano in maniera esplicita e diretta — senza filtri concettuali — di drammi, problemi sociali, oppressioni, sofferenze, dittature, conflitti, libertà negate.

In tal senso, illuminanti le due più recenti presenze italiane di questo artista. L’opera collocata nel 2016 sulle facciate di Palazzo Strozzi a Firenze: una sequenza di gommoni arancioni incastonati nelle finestre a bifora, per alludere alle tragedie dei migranti. E Human Flow, il film che sarà in concorso al prossimo Festival di Venezia: un kolossal girato in 22 Paesi (alla Michael Moore), che documenta guerre, carestie, malattie, cambiamenti climatici e crisi dei rifugiati, invitando alla riscoperta di valori come tolleranza, compassione, fiducia. Per descrivere la sua filosofia, Ai Weiwei ha detto: «Sono un lottatore. Se facessi l’atleta, sarei un pugile. Prendo cazzotti che fanno male e mi metto in situazioni a rischio».

Vincenzo Trione

 

  • Domenica 20 Agosto, 2017
  • LA LETTURA