L’ultima volta che sono stato in quarantena – appunti sparsi di vita costretta e corporale

di

 

«Il corpo» è la nostra angoscia messa a nudo.
Jean-Luc Nancy

Chiuso in casa, vivendo solo, questa cosa nobile e un po’ immonda di fare a me stesso da padre, da madre, da nonna, da fratello, da fidanzata, da amico, da gatto, da pianta da innaffiare con moderazione.

Questa auscultazione intima di sé, della propria carne, del proprio corpo nelle sue inestricabili parti, soprattutto della gola, in cui il più infimo raschio è già suono di corno a cui faranno seguito le terribili mute del virus in assetto di caccia.

La consapevolezza che la quarantena, limitando follemente il movimento, mi inviti non più a bruciare i grassi, ma ad accumularli, segnando il mio corpo, in modo che rechi memoria. L’adipe è memoria.

Il pensiero che non prendo il sole da settimane, che non mi espongo alle radiazioni solari, che il mio corpo non produrrà vitamina D in risposta a tali radiazioni, che senza tale vitamina tali ossa non disporranno del calcio necessario alla loro formazione – e che così andando diventerò pallido, cereo, lattescente, e che quando tutto questo sarà finito la luce del sole mi accoglierà così sbiancato, così purificato, del colore luccicante di certi vermi arricciati e cavati improvvisamente dalla terra o dei putti in ceramica custoditi nelle chiese.

Far scivolare sempre più in là l’orario di pranzo, l’orario di cena, come se il tempo della quarantena non coincidesse con il tempo della vita precedente, ma si fondasse su un continuo, a volte impercettibile, slittamento.

Questa gioia inesauribile nel vedere delle formichine salire e scendere dalla finestra del bagno, le prime creature viventi venute a farmi visita dopo tre giorni che non esco da casa neanche per buttare la spazzatura, e sempre la stessa inesauribile gioia nello schiacciare le formichine una per una con il pollice sulle mattonelle.

Trovare questi versi in una poesia di Baudelaire, «Molte bare // di vecchie, l’avete mai notato? sono piccole / quasi come le bare dei bambini», e poco dopo sentire al telegiornale il numero impressionante di anziani deceduti in seguito all’infezione da coronavirus, e lì per lì immaginare non più una moltitudine di vecchi ascendere al cielo, ma di bambini rugosi con i capelli bianchi.

Avere la vaga sensazione di aver già letto la storia di Boris Johnson da qualche parte, e inevitabilmente, dopo qualche istante, ricordare La maschera della morte rossa, il racconto di Edgar Allan Poe, sebbene negli ultimi giorni questa storia abbia trovato un lieto fine.

Sentire tutti i giorni, più volte al giorno, nei programmi televisivi, la parola guerra, in tutte le sue declinazioni, e convincermi che sia così. Dopo di che provare enorme vergogna al ricordo di mio nonno, che più o meno alla mia età, durante la Seconda Guerra Mondiale, passando un anno di prigionia in Grecia, soffrì ogni genere di stenti e privazioni, mentre io sono comodamente seduto sul divano a leggere l’Iliade.

Questo lavarsi le mani continuamente, anche nel recinto disinfettato di casa, soprattutto dopo aver toccato il telefono, soprattutto prima di cucinare o sedersi a tavola, alleviando qualche insopprimibile impulso. Essere il paziente zero di se stessi.

Questo passare tempo infinito su internet, senza sfiorare minimamente gli aggiornamenti sulla pandemia, giusto per trovare distrazione, e immancabilmente sentirmi braccato, tracciato, mappato dalle web corporation, che registrano ogni mia mossa, accumulando dati su di me, pretendendo di saperla lunga su di me, di averne piena cognizione, loro che non avranno mai neanche sentore che in questi giorni di fantascienza, senza sapere neanche io come, riesco a bruciare il pentolino ogni volta che metto su il latte a bollire per colazione.

Guardare gli alberi dalle finestre, e osservare le foglioline spiccare al sole e accendersi sui rami come tante fiammelle, e sentire che in qualche modo tutta questa vita mi chiama, mi sollecita, mi corrisponde, ricordandomi così quei versi dell’Iliade letti qualche giorno prima, «Quale delle foglie, tale è la stirpe degli uomini. / Le foglie il vento le sparge al suolo ma altre / ne fa germogliare la selva in fiore al ritorno della primavera. / Così le stirpi degli umani: nasce una, un’altra muore.»

Questo riprendere contatti con amici che non sentivo da una vita. Questo riprendere i contatti nel momento in cui bisogna evitare i contatti. Questi contatti senza contatto.

Non volere per nessuna ragione al mondo usare la parola lockdown, ma preferire nettamente la parola quarantena, che seppure mi si scioglie in bocca con sapore di peste, di gente lasciata marcire sulle navi davanti allo splendore terrorizzato di Venezia, contiene in sé un orizzonte di quaranta giorni, offrendo un preciso limite temporale al periodo di segregazione e isolamento – come se solo proferendo la parola quarantena, una mano tremenda però molto gentile avesse capovolto una clessidra, cominciando a far scorrere la sabbiolina dei giorni di attesa.

Provare immensa gioia e immenso terrore all’idea di dover uscire da casa, come se il virus aspettasse proprio me come un’innamorata per strada – tanto che, se la gioia immensa mi fa lavare e vestire immediatamente, l’immenso terrore mi fa perdere il portafogli, non mi fa ricordare dove ho lasciato il telefono, procrastinando infinitamente il momento di uscita.

Lasciarmi crescere la barba per giorni, oppure radermi una mattina, per dovere o per capriccio, ritenendomi molto soddisfatto del controllo assoluto che esercito sulle mie guance. E tuttavia, specularmente, sentirmi molto depresso per il rapporto che intercorre con i miei capelli, i quali crescono a loro piacimento, smisuratamente, levando creste improvvise. Ah, questa vita vegetale in pieno rigoglio che dentro me stesso, nonostante me stesso, trae nuova linfa dalla costrizione della quarantena, vendicandosi così delle mie cure soffocanti, e tanto più delle forbici luccicanti del barbiere, dopo anni e anni di soprusi e vessazioni.

Avere un debole per la parola di origine greca pandemia, che non significa solo “di tutto il popolo”, ma che rappresenta anche un attributo di Afrodite. Afrodite Pandemia era la dea che proteggeva l’amore, ma non l’amore romantico, ma l’amore carnale, cieco, compulsivo, perverso, l’amore che riguardava il corpo e non l’anima – e sarà per questo se proprio adesso avverto tutta questa eccitazione nell’aria solo guardando fuori della finestra, mentre la primavera dà il meglio di sé, mischiando memoria e desiderio, sbocciando pazzamente.

Addormentarsi e svegliarsi a orari regolari, che è cosa buona e giusta, che è la cosa migliore che potesse capitarmi, ma avere anche l’impressione che il mio corpo si sia già abituato a questa vita in cattività, che vi abbia fatto nido, che si sia adattato perfino contro la mia volontà. Questo per dire quale cosa minuta e superflua sia la volontà.

(E a proposito del sonno, ridere follemente ricordando una pagina de Le anime morte di Gogol’, letta quando il virus forse già circolava in Europa, senza che nessuno ne sapesse niente, «Dopo il viaggio che aveva fatto provava una notevole stanchezza. Ordinata la cena più leggera, che consisteva soltanto in un porcellino da latte, si spogliò senza indugio e, infilatosi sotto la coperta, si addormentò profondamente, pesantemente, s’addormentò di quel sonno stupendo di cui dormono soltanto quei fortunati che non conoscono né le emorroidi, né le cimici, né troppo elevate doti d’ingegno.»)

Questo continuare a lavarsi le mani, e dopo infiniti lavaggi vedere le proprie mani acquisire un rosa diverso, quasi opalescente, e ancora di più sentire la pelle tendersi e assottigliarsi fino a produrre delle micro lesioni, una spaccatura sul palmo della mano destra, una fenditura sulla nocca del pollice sinistro. Essere così convinto che lì dove il corpo si fa più tenero, lì dove il corpo cede, aprendo ferite, scucendo occhi e bocche nella carne, il corpo comincia a parlare e vedere con infinita precisione – ma allo stesso tempo non avere molta voglia di sapere esattamente cosa vede e cosa vuole dirmi il mio corpo, anzi averne quasi timore, al punto che «La tua mano si è chiusa gli occhi con i cerotti», come mi suggerisce una poesia di Mario Benedetti.

A volte, levarsi improvvisamente dalla sedia dopo essere rimasto tempo infinito a fissare un punto nel vuoto, e sentirsi leggero, ubriaco, e tanto più debole e sfinito, come se non mi reggessero le gambe. E proprio allora, scrollandosi quel malessere di dosso, e tanto più sentendolo gravare sulle spalle, correre improvvisamente alla finestra, e guardare fuori, e benedire ogni cosa che cade sotto i miei occhi, ed essere così grato che questa debolezza tocchi proprio me, che continui a visitare proprio me, quando un numero indefinito di giorni si apparecchia davanti a me come tanti alberi nella nebbia.

Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido. Così come l’albero, mentre cresce è tenero e flessibile, e quando è duro e secco muore. Rigidità e forza sono compagni della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà.

da Stalker, di Andrej Tarkovskij