Marco Santagata si laureò in letteratura italiana a Pisa, ventitreenne, nel 1970, e da allora la considerò per sempre sua città d’elezione. Dopo il corso di perfezionamento in Normale, aveva tenuto cattedra a Venezia e Cagliari, a Parigi e Ginevra, a Nancy e Città del Messico ed era un continuo andare e tornare. Conservava al tempo stesso legami autentici con Zocca, il natio centro del modenese, ma non riusciva proprio ad abbandonare l’aria di libertà e la rete di scambi degli anni di formazione. Amicissimo del compaesano Vasco Rossi ha intitolato un suo libro di spigliate confessioni rubando il verso d’una canzone del cantautore: Voglio una vita come la mia. Una dichiarazione che esprime il suo carattere: aspro e indipendente, egotista e aperto, rustico nelle apparenze e finissimo nella cultura. Marco ci teneva a stare in sintonia con la generazione privilegiata che aveva visto la luce nel periodo entusiasmante del quinquennio 1946-1950 e attraversato felice il miracolo economico e l’esplosione del Sessantotto: «La gran parte di noi è nata in paesi o in piccole città – confidò con fierezza –, e in molti discendiamo da nonni contadini. Nelle nostre case non c’era l’acqua corrente, ci grattavamo sotto i pantaloncini, sassi di fiume e pezzi di legno erano i nostri giocattoli, a sera prendevamo sonno ascoltando favole o i discorsi dei grandi a veglia. Privazioni, forse, ma ci ricompensava con interessi esorbitanti l’essere circondati da un mondo magico, un mondo a nostra misura». Il sommo filologo noto nel mondo ci ha lasciato lavori imperdibili su Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, ed era tutt’altro che alieno dall’assumere funzioni di pubblica evidenza. A Pisa non ha occupato ruoli di protagonista paludato, ma di animatore instancabile. Militò a sinistra, nel Pci, nei Ds, quindi nel Pd, ma con franco spirito critico. Certe ardite proposte di innovazione non trovarono lo sbocco che meritavano. Era molto prossimo a Massimo D’Alema, con cui aveva condiviso l’appartamento per un po’di tempo, ne aveva stima, ma ciò non gli impediva di prenderne le distanze. Candidato nella lista dei Ds alle comunali del 1998, non fu eletto. Dava consigli al sindaco, interveniva nelle dure dispute, ma le delusioni erano di solito brucianti. Alle elezioni regionali di quest’anno si era schierato con la Sinistra Civica Ecologista, e fu contento del bel risultato ottenuto.
Passione preminente delle sue ricerche è stato Dante: non si contano le occasioni scientifiche e festivaliere che contribuì a imbastire per illuminarne la perennità ed esaltare Pisa come città dantesca. Dopotutto l’esule fiorentino vi aveva scritto, tra 1312 e il 1313, La Monarchia: «Dante – ripeteva convinto – è l’unico dei grandi capace di suscitare una sensibilità e una capacità inventiva che riesca a permeare davvero la vita culturale italiana». Ostile alle barriere accademiche, non si peritò a proporre d’invitare a dir la loro su Dante Pupi Avati e Massimo Bray, Valerio Massimo Manfredi e Sergio Staino. Suggerì di mettere a confronto, in uno spettacolo teatrale, i maggiori personaggi dell’Inferno con icone del Novecento: Lady Diana e Dodi Al Fayed, Marylin Monroe, Giulio Andreotti, Andy Warhol, Pier Paolo Pasolini. Nella Commedia ribatté a chi mugugnava si rinvengono una miriade di pezzi da instant book: «I lettori di allora potevano riconoscervi eventi accaduti da pochissimo tempo e il profilo di molti personaggi scomparsi di recente o addirittura, in piena attività». A quanti gli facevano notare, quasi a mo’di rimprovero, che si ritagliava sovente qualche intervallo di divagante riposo dandosi a racconti d’invenzione, Marco rispondeva burbero che provava più fatica nel comporre i suoi romanzeschi titoli sugli autori più amati che nel mettere a fuoco i loro testi e a commentarli a dovere. Echeggiando una categoria leopardiana (l’«ultrafilosofia»), gli si potrebbe attribuire di essere il maestro di una sorta di «ultrafilologia».
Gli assilli che danno un’originalità assoluta alla sua eredità sono stati il rapporto da istituire tra biografia e scrittura e le relazioni da capire tra dati reali e loro onesto uso fantastico. Perché, una volta restaurato un testo e penetrato nella sua lingua, è ineludibile il tema spinoso della sua genesi: che induce a indagare i fondamenti carnali, i travagli sofferti, le speranze utopiche e i frustanti scacchi. Seguendo queste piste predilette la parola diventa carne e acquista una palpitante risonanza. Santagata si soffermò sul Leopardi giovanile infatuato del mito della benefica natura per concludere: «La radice privata e le continue proiezioni dell’io possono anche spiegare perché le velleità politiche del discorso leopardiano restino tali, perché, al di là dell’ acutezza delle analisi storico-antropologiche e per quanto giocato su categorie universali, il suo progetto sia del tutto impraticabile». Giusto nella nota che chiude Il copista chiarisce il senso del suo affascinante percorso: la scrittura creativa svincola dalle costrizioni della saggistica e, lasciando liberi di avvicinarsi alla poesia nel suo farsi, ne fa intendere il mistero intrecciando narrativa e critica, «i nessi profondi che legano ispirazione e biografia»: e, insieme, ammoniva Marco Santagata, il filo che unisce «le mie due anime di scrittore», gli spregiudicati tentativi di «raggiungere un’altra verità».
Roberto Barzanti