L’ideologia del piccoloborghismo

Sviluppo post covid

Tra le scoperte indotte dalla pandemia spicca l’ambigua esaltazione dei piccoli borghi. C’è perfino chi, non a torto, ha intravisto l’affermarsi di una dilagante ideologia del piccoloborghismo. Sorprende che il termine, usato perlopiù in modo generico, si sia diffuso rapidamente anche in Toscana. Val la pena soffermarsi sulla pluralità di accezioni della parola. Che deriva – a farla breve – dall’incrocio di un tardo latino burgum , che sta per luogo fortificato e un germanico Burg, castello. Ma ha designato pure una parte periferica di città o un quartiere. Nell’accezione oggi prevalente, assunta nel lessico della propaganda turistica, indica centri piccoli, minori o ritenuti tali, lontani rispetto alle aree intensamente popolate e quindi adatti ad una vita quieta, al buen retiro (per  chi se lo può permettere) di rilassanti finesettimana. Altro discorso, ovviamente, va declinato per chi questi luoghi abita ogni giorno. La coloritura romanticheggiante dell’abusata parola assume così un significato quantitativo, tien d’occhio le dimensioni  demografiche e ignora le condizioni sociali, i processi che hanno indebolito e fragilizzato tanti paesi una volta vivaci e sorretti da spirito comunitario. Il peggio è che non si fanno le necessarie distinzioni. Così può capitare di rinvenire in un sito noto che elenca i dieci borghi da visitare assolutamente in Toscana, Volterra e Castagneto Carducci, Montalcino e Pienza, che se c’è un agglomerato meritevole del titolo di città è lo spazio ideale voluto da Pio II, geometricamente disegnato come una razionale scenografia. Siccome la babele del linguaggio è sintomo e origine di impostazioni  culturali e linee politiche dense di pericolosi effetti o di infondate fantasticherie, sarà utile tentar di fare chiarezza, contrastando soluzioni solo apparenti per seri problemi strategici, resi attuali nella post-pandemia. Nelle città si dovranno affrontare  riforme profonde e intervenire su privilegi e disparità da eliminare. Si vanno moltiplicando o immaginando operazioni che diano respiro all’immissione in esse di un verde non esornativo, a «piazze vegetali», a momenti di incontro sociale. Si tratta di combattere o ridurre l’invadenza di un consumismo che ha penalizzato le funzioni residenziali connotando i “centri storici” o parti delle “città d’arte” – categorie tutte da superare – come vetrine di offerte estranee ai bisogni o ai desideri dei cittadini. E i borghi? I mezzi che proveranno dal Pnrr saranno ben impiegati se prenderanno in considerazione le situazioni di crisi senza cedere alla domanda di un  effimero e rapace turismo. Contrastare con mirati incentivi lo spopolamento è decisivo, adoperarsi per rafforzare una viabilità di collegamento ispirata ad una mobilità sostenibile è cruciale, sostenere cooperative che riqualifichino l’edilizia è urgente. Questi obiettivi non dovrebbero, però, avere a scopo principale la soddisfazione di un fortunato mito. Un arcipelago di isolette separate l’una dall’altra e buone solo per rinfrancare chi fugge dalle città per avere una pausa di quiete e silenzi non è una prospettiva valida. I cosiddetti borghi e i luoghi più antropizzati che fanno corona agli snodi forti devono essere ricompresi in sistemi urbani, in circuiti che costruiscano città nuove. Abbattere confini amministrativi anacronistici, gestire insieme l’allocazione di servizi rari e no: questa è la strada difficile da percorrere. La rinascita dei Comuni più sguarniti non si avrà se si avalla, di fatto la riedizione di mentalità anti-modernistiche da Strapaese: un ruralismo snob veicolato dalla moda imperante. Ricordate il proclama (ironico) di Mino Maccari? «Strapaese è stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e paesano della gente italiana; vale a dire, oltreché l’espressione più genuina e schietta della razza, l’ambiente, il clima […] le più pure tradizioni nostre».                              

 

Roberto Barzanti “Corriere fiorentino”, 22 ottobre 2021