L’Unione Europea, appare sempre in fieri, con un assetto istituzionale che continua a subire variazioni e innesti.
Dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona, che recepiva alcuni elementi di quella Costituzione europea respinta dai cittadini francesi e olandesi, i manifesti riformatori si contano nella misura di almeno un paio all’anno (qualcuno ricorda il rapporto dei cinque presidenti? O il libro bianco della Commissione europea?), ma le proposte sono sempre finite sugli scaffali delle librerie, se non nel tritacarta della Storia.
L’ultimo tentativo, in ordine di tempo, fa capo al presidente francese Emmanuel Macron e alla cancelliera tedesca Angela Merkel. I due leader propongono un rafforzamento della zona euro che passi dalla costruzione di un Fondo monetario europeo capace, almeno in parte, di assorbire eventuali shock esterni e di correggere – nei momenti di crisi – i bilanci nazionali più vulnerabili. Questi nuovi strumenti dovrebbero essere gestiti da una sorta di ministro delle Finanze condiviso, il quale, almeno in linea teorica, siederebbe pure nel collegio dei commissari e dovrebbe presiedere le riunioni dell’Eurogruppo.
Come spesso accade, però, il diavolo sta nei dettagli.
Macron sarebbe favorevole a porre l’intero meccanismo sotto il controllo democratico del Parlamento europeo, mentre Angela Merkel (sotto pressione sia dai liberali che dall’ala destra della sua coalizione di governo) vedrebbe meglio un coinvolgimento diretto delle assemblee nazionali; allo stesso modo, le aperture francesi sul finanziamento al Fondo monetario europeo sono state accolte con una certa freddezza a Berlino, tanto che Olaf Scholz, neoministro delle finanze, s’è affrettato a dichiarare che la Germania non sarà il pagatore di ultima istanza dell’intera eurozona e che, per quanto lo riguarda, nel suo incarico non ci sono priorità di destra o di sinistra ma solo priorità tedesche.
Nuovi attori, vecchio copione insomma e, come se non bastasse, a questo giro c’è il rischio che il motore franco/tedesco si accorga della mancanza di alcuni ingranaggi prima dati per scontati.
L’Austria, sotto la guida del giovane Kurz, si sta allineando alle posizioni euroscettiche dei Paesi di Visegrád, mentre il governo olandese, per bocca del primo ministro Mark Rutte, ha espresso forti perplessità sul piano di Macron, sostenendo che il futuro dell’Unione Europea dovrà necessariamente passare per un rinnovato ruolo di tutti e ventisette gli Stati membri. Insomma, con l’Italia in preda alle turbolenze postelettorali e la Spagna mai come ora concentrata sulle questioni interne, Francia e Germania rischiano di trovarsi in splendido isolamento, senza neppure il supporto dei Paesi che – almeno in teoria – dovrebbero formare quella kerneuropa sognata da Schäuble.
Il rischio più concreto è che il crollo dell’euroentusiasmo olandese possa tracciare un’inedita saldatura est/nord, andando a costruire un nuovo blocco continentale se non del tutto sospettoso nei confronti dell’Unione quantomeno tenuto insieme da un rinnovato afflato riduzionista. In un quadro di questo tipo l’unica prospettiva in cui immaginare eventuali riforme parrebbe quella della rottura in sede di Consiglio europeo, se non la creazione – non più teorica ma de facto – della già vaticinata UE a due velocità.
Il cambio d’atteggiamento olandese, tuttavia, rischia di creare più d’un mal di testa a Parigi e Berlino: oltre a essere un membro prestigioso del club europeo, il Paese dei tulipani controlla gli snodi portuali più importanti del continente e, per tradizione istituzionale, ha sempre rappresentato una sponda fondamentale per la costruzione dell’egemonia tedesca. Dopo aver fatto a meno di Varsavia, Budapest, Helsinki, Vienna, Londra e Praga, Emmanuel Macron e Angela Merkel potranno permettersi di lasciar andare anche Amsterdam? La risposta ci appare scontata.
In ogni caso le difficoltà di Macron e della Merkel si inseriscono nella più generale stanchezza dell’intero disegno europeo: la crescita delle forze nazional-populiste sta costringendo i governi almeno formalmente “moderati” a un approccio sospettoso nei confronti di qualsiasi nuovo progetto d’integrazione, mentre ogni proposta appare viziata da un milieu federalista non più al passo con i tempi.
C’è un vecchio detto americano che dice più o meno così: «se il tuo strumento è un martello può essere allettante trattare tutto come fosse un chiodo», ecco, l’Unione Europea di oggi ha più o meno lo stesso problema: nel vuoto ideale che sta attraversando le grandi famiglie politiche storiche, si finisce fin troppo facilmente per dire cose vecchie con il vestito nuovo. Così, mentre le soluzioni semplicistiche di chi vuol solo distruggere e non costruire diventano ogni giorno più credibili, i fautori dell’unità europea paiono dei moderni Sisifo, condannati a spingere lo stesso masso in eterno e, ogni volta, lo guardano impotenti scivolare lungo la scarpata.