L’epidemia racconta il collasso di un mondo già devastato

Che un’epidemia non sia soltanto un fatto medico o biologico è il presupposto fondamentale per comprendere criticamente il tessuto sociale e politico nel quale l’umano abita. Il fatto o meglio il dato di fatto epidemiologico non esiste come qualcosa di separato – giudicabile, quindi, in modo unidirezionale – bensì è in costante reciprocità con l’ambiente nel quale sorge.
Un ambiente che è sempre plurale e profondamente interrelato. È questo infatti uno dei principali suggerimenti metodologici di Krisis. Corpi, Confino e Conflitto (Catartica Edizioni, pp. 118, euro 13,00) che raccoglie saggi di Afshin Kaveh, Alberto Giovanni Biuso, Xenia Chiaramonte, Cristiano Sabino, Nicoletta Poidimani, Elisabetta Teghil.

E TUTTAVIA negli ultimi mesi di crisi epidemica la cosa pubblica si è incrinata in modo radicale sul piano di una narrazione mediatico-televisiva colorata da un cieco protezionismo biologico e medicale della vita – specie della vita in quanto vita. E cosa ancor più significativa, lo scarto fra società e stato è parso appiattirsi per svuotamento di opposizioni, in nome dell’impossibilità di fare altrimenti di fronte alla novità di un fenomeno senza precedenti.
Introiettati, forse irreversibilmente, quali dispositivi necessari per la conservazione della vita, soprattutto di quella «degli ultimi», i dpcm hanno stabilito e consolidato per fasce di età e curriculo clinico le soglie di comprensione dell’esistenza, dei suoi confini e dei suoi diritti elementari. In questo scenario, il «paradigma Don Abbondio» risponde in modo calzante a una possibile diagnosi antropologica e insieme epistemologica delle ragioni che rendono potente ogni comando: «Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire» – così fa dire Manzoni all’«anima nera» del suo romanzo. Quando appunto la vita non la si può contare, enumerare, proteggere o quando non la si può raccontare altrimenti se non con dispositivi di controllo di cui si dispone all’occorrenza, non ne rimane più nulla.

ED È QUESTO «approccio quantitativo al mondo» insieme al dissolversi dei corpi, degli spazi, delle relazioni, della didattica che i tanti Don Abbondio (studenti, docenti, intellettuali, politici) hanno voluto celebrare «proteggendo» la nuda vita. La vita che non conosce altro all’infuori di se stessa, la vita che è costante terrore della morte: «Il dispositivo fondamentale dell’autorità tirannica è infatti ed esattamente la paura della morte che diventa pensiero ossessivo del decesso».
Un eccesso di fredda razionalità ha tradotto la vita collettiva in irrazionali conflitti davvero lontani da un pensiero critico e plurale. Quest’ultimo è infatti sempre comprensione qualitativa e anche quantitativa delle forze che intessono di senso ogni accadere; poiché la critica, se è veramente tale, è un esercizio di necessaria giustizia esterno a ogni atteggiamento di obbedienza.

È DIFATTI UNA STORIA di reclusione e di estrema plasticità dei corpi, di degenerazione e decostruzione dello stato di diritto quella vissuta sotto il Covid-19, considerato panopticon. È una pagina di storia che se letta, come fanno gli autori di Krisis, con sguardo genealogico, rivela i rapporti di forza che sottendono alla prassi di internamento e domesticazione fisico-virtuale, la cui scaturigine è quindi il dispositivo «sicurezza/legalità/meritocrazia/darwinismo sociale».
Lo sguardo genealogico, che lega insieme il «trinomio capitalismo, crisi-ecologica, crisi-epidemica», non soltanto coglie l’immediatezza del fenomeno eccezionale ma dispiega anche le sue mediazioni all’interno di un concatenamento di rapporti interni al fenomeno stesso: «la crisi del capitalismo è la crisi ecologica, è la crisi epidemica, è la crisi finanziaria».

Covid-19 è allora un marchio di insostenibilità politico-economica dei paradigmi che già da tempo disegnano le geometrie del mondo contemporaneo: controllo e assoggettamento, sfruttamento agro-alimentare e allevamento intensivo, cementificazione delle aree verdi e distruzione delle biodiversità. Sono questi alcuni esempi della tanatopolitica neoliberista che scinde l’umano dall’intero e inverte le ragioni del malus attribuendone la colpa allo straniero, al dissidente, all’untore, a chi abita i margini dei fatti, così che «i cittadini si possono riconoscere come causa stessa dei loro problemi e dei loro malanni». Resta, infine, aperta la serie di domande che scuote questo sogno illuministico: «Chi sarà vettore del cambiamento? Quali saranno le azioni che lo produrranno?». Il chi, in uno scenario di decisioni imminenti, è la grande domanda.

 

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