Nel 1890 Józef Korseniowski, nato il 3 dicembre del 1857, battezzato a Berdyčiv, Polonia zarista – ora Ucraina – era già Joseph Conrad, aveva preso la cittadinanza inglese quattro anni prima. Era stato a Singapore e nel Borneo, aveva guidato brigantini tra Bangkok e Sydney. Quell’anno compiva gli anni di Cristo in croce e voleva levarsi lo sfizio, un sogno. L’Africa. Se la ricordava, nitida come una morgana, possente come l’ineffabile, nelle carte geografiche che sfogliava da bimbo. “A Londra, grazie ai buoni uffici di una lontana parente… ottiene il comando di un battello fluviale sul Congo” (Mario Curreli). Il viaggio – lo testimonia anche il ruvido, monotono “Diario del Congo” – è deludente, la malaria lo sfianca. “A bordo, con lui, c’è anche un altro agente della compagnia, Georges Antoine Klein, gravemente malato, che poco dopo muore ed è sepolto nella riva fangosa” (Curreli). Conrad interrompe il viaggio, torna in Europa, va a curarsi in Svizzera. Quel nome, però, Klein, gli tortura il cervello: “Il nome di Klein figurerà nel manoscritto di ‘Heart of Darkness’, sostituito poi con quello di Kurtz”. Farà ancora qualche viaggio – in Australia – ma l’Africa, di fatto, è l’ultima avventura esotica, in favore di rischio. Nel 1895 nasce uno scrittore: Conrad pubblica La follia di Almayer.

Cuore di tenebra, il più grande, ferino, inafferrato tra i romanzi di Conrad, celato tra le nubi del sogno (“È impossibile, è impossibile trasmettere la sensazione di vita di qualsiasi periodo della propria esistenza – quel che ne rende la verità, il significato – l’essenza sottile e penetrante- è impossibile. Si vive, così come si sogna – soli…”, dice Marlow, dal cuore del libro), esce per la prima volta sul ‘Blackwood’s Magazine’ nel febbraio del 1899, ed è, a cavallo del secolo, la rivoluzione secolare, la teoria della relatività in letteraturail romanzo come matrioska di finzioni, gioco d’equilibrio a lame tra il ‘selvaggio’ e l’ordinario, tra desiderio e atto, indicibile e indecente. “Heart of Darkness è il migliore romanzo breve ch’io conosca e a mio parere l’pera di Conrad più bella e densa. Il racconto è emozionante e profondo, lucido e disorientante… Conrad prefigura i metodi di Kafka e di Beckett”, scrive Cedric Watts.

Come Re Lear, come Don Chisciotte, come Achab, come il Giudice Holden di Meridiano di sangue. Joseph Conrad era consapevole di aver creato, con Kurtz, una delle creature più potenti della storia letteraria. Solo che… Kurtz non esiste neanche sulla pagina letteraria: è il frutto di fraintendimenti, menzogne, chiacchiere, timori. Cuore di tenebra converge, a spirale, intorno a Kurtz, uomo mefistofelico, dissimulatore, che sovverte ogni pretesa di inquadrarlo. Già… ma chi è Kurtz. Abilissimo commerciante d’avorio in Africa, ha una donna, di pallida bellezza, che lo adora, a Londra, è preso per un semidio da una tribù indigena, è per metà francese, è stato un musicista di talento, un pittore, uno scrittore, un oratore di formidabile eloquenza. “È una persona davvero notevole”, ci è detto di lui, all’inizio del libro; “Kurtz era un uomo notevole”, afferma Marlow alla fine del libro. Ma cosa c’è da annotare di Kurtz, che cosa è degno di nota? “Tutta l’Europa aveva contribuito a foggiare Kurtz”; e Kurtz, questa specie di superuomo a testa sotto, l’occidentale perfetto, meccanico, aveva voltato le spalle all’Occidente, alla ragione, per darsi al rito tribale, all’istinto sinistro, all’indole divina, senza dottrina. Aveva preso a morsi il cuore di tenebra dell’uomo. “Tutto gli apparteneva… L’importante era sapere a che cosa appartenesse lui, quante potenze delle tenebre lo reclamassero come cosa propria”.

Joseph Conrad pubblica Cuore di tenebra nel 1899; nove anni prima aveva valicato il fiume Congo

Cuore di tenebra è l’estasi di un moribondo: con Kurtz, forse, muore la vita imperniata sull’estro di Conrad, la vita preda di oceani, pericoli, scelte. Il rischio. La scrittura – la professione dello scrittore – imprigiona in legacci verbali, nell’anomalia dell’essere compresi, dell’avere successo. Di Kurtz sappiamo che “era calvo in modo impressionante”, che ha la voce cupa di un re, che è cinto da “una tenebra impenetrabile”. Quest’uomo, uno dei demoni, forse, “allo stesso tempo Faust e Belzebù e anche Lucifero” (Mario Curreli),tradisce ogni nostra attesa: non dice nulla. L’unico singulto, la sua rivelazione, è orrore.

Certi brani mi hanno sorpreso. Non sapevo di avere un cuore di tenebre e un’anima di fuorilegge. L’aveva il signor Kurtz, e io non l’ho trattato con la tranquilla indolenza di un dilettante. Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ho scritto

Joseph Conrad

Per primo, fu Orson Welles a tentare di tradurre Cuore di tenebra in film. Per fortuna, ha risolto il gioco Francis Ford Coppola. Dal 1979 siamo pacificati: Kurtz non potrebbe avere altro corpo che quello di Marlon Brando in Apocalypse Now, immenso, immane, mefistofelico, mentre si deterge il capo, cioè riemerge arcaico da un blasfemo battesimo, e dice a Willard/Martin Sheen – che poi è il miracoloso Marlow di Conrad –, “Ha mai preso in considerazione le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui. Addirittura dalle proprie”. Il genio fu l’innesto del romanzo di Conrad sulla quinta vietnamita, far sbarcare il Congo/Inferno nel tempio di Angkor Wat. Basato su un testo di Michael Herr, l’autore di Dispacci, fu John Milius a intersecare frammenti di Conrad nel film – così, una pellicola di guerra, allucinata e corrusca, diventò un’opera epica. Nel 2006 le edizioni Alet hanno pubblicato la sceneggiatura originale di Coppola+Milus, Apocalypse Now ReduxEppure, il Kurtz di Coppola non è quello di Conrad.

Mario Curreli è tra i grandi studiosi di Conrad – ha curato il doppio volume delle opere per Bompiani – ma io resto legato alla versione di Ugo Mursia, devoto conradologo, del 1978, che si intitolava Cuore di tenebre. E mi piace quanto scrive Glauco Cambon: “Per Conrad l’angelo da sconfiggere era anche il demonio… Le avventure di Conrad risalgono un Congo tenebroso che è il tracciato della storia e dell’anima umana, fino alle sue origini intemporali, fino alla purezza di un terrore assoluto attinto, sfiorato e abbandonato”.

Certo, il guizzo di Coppola è il finale, il colpo di machete con cui Marlow ammazza Kurtz, mentre si va scannando, ritualmente, il bue. Il finale ipotizzato da Conrad è più fine, Marlow lo narra “nella posa di un Budda meditabondo”. Kurtz muore seppellendo il suo segreto – l’uomo che ha scelto di sterminare le proprie convinzioni, dandosi in pasto al selvaggio. Marlow va dalla donna di Kurtz, che lo attende da anni, dopo averne spiato il ritratto – “mi dava l’impressione che fosse bella” –, roso dalla curiosità. “Venne avanti, tutta vestita di nero, con una faccia pallida, fluttuando verso di me nel crepuscolo”. Mentre “le tenebre si infittivano”, la donna sussurra, “era impossibile conoscerlo e non ammirarlo, no?”, e poi scatta, “nessuno lo conosceva meglio di me!”. Mentre la donna, fieramente, implora Marlow – “io l’amavo, l’amavo, l’amavo”, come se amare fosse uccidere – chiedendogli di rivelarle “l’ultima sua parola”, albeggia la bugia, “L’ultima parola che pronunciò fu – il vostro nome”. Lei sospira, si fa di gioia, muta la morte in carisma, “Lo sapevo – ne ero sicura”. Come se orrore e amare fossero la stessa cosa.

John Malkovich è John Malkovich, che ovvietà, ma nel film di Nicolas Roeg, Heart of Darkness (1994), barbaricamente didascalico – Marlow è interpretato da un credibile Tim Roth – è un Kurtz maniaco a malaticcio, appena reduce da Il tè nel deserto.

Ogni singola frase è un gradino che ci conduce a Kurtz, che prelude all’incontro. Ma Kurtz non parlerà, se non pronunciando la parola ambigua e celeberrima, eraclitea, “The horror! The horror!”, dietro cui ogni soluzione e nessuna è possibile. Siamo condotti dentro un imbuto infernale, nel grande intestino del Congo, per scontrarci contro quella orrenda risposta. L’assioma che sigilla la nostra esistenza terrena, “Kohèlet” assemblato in un versetto, Giobbe in vitro, Amleto barbaro, privo di carnevale retorico. Ciascuno faccia la propria partita a dadi e giunga a patti con sé e con Kurtz; Conrad, per ciò che gli riguarda, come ogni gigante, ci pone sul ciglio dell’abisso, non costruisce il ponticello per passare dall’altra parte – se poi esiste un’altra parte.

Il potere è uccidere se stessi e poetare sul proprio cadavere, danzando con corpo muto e mutevole sguardo, pronti al commercio come al bosco che cresce sulla schiena.

Il Kurtz di Conrad farnetica, quello di Coppola fa dottrina. Legge Thomas S. Eliot nel momento cruciale del film, e si tiene sul comodino, oltre a una copia della Bibbia, il libro di Jessie L. Weston, From Ritual to Romance, e quello di James G. Frazer, The Golden Bough – entrambi, a detta di Eliot, stanno a fondamento della Waste Land. Che poi Eliot amasse mentire come pochi e sviare l’attenzione dei critici è un fatto, come è papale l’operazione filologica di Coppola. Che c’entra Eliot con Conrad, a parte il fatto che entrambi sono stranieri – uno è americano, l’altro polacco – catapultati in Inghilterra, e che entrambi hanno cambiato per sempre la storia della letteratura occidentale? Chiamiamola affinità elettiva e riavvolgiamo il nastro.

La poesia declamata a sorseggi, come un sermone biblico (“Siamo gli uomini vuoti, Siamo gli uomini impagliati/… Figura senza forma, ombra senza colore,/ Forma paralizzata, gesto privo di moto”),  da Brando/Kurtz è The Hollow Man di Eliot, che porta in esergo una frase da Cuore di tenebra (“Mistah Kurtz – he dead”) e ambisce a essere la “scatola nera” di quel romanzo breve, il discorso che Kurtz non ha mai pronunciato. Ma cosa c’entra, pigiamo ancora, la Waste Land? C’entra, perché Eliot avrebbe desiderato posizionare lì, all’ingresso della sua opera più nota, la frase di Conrad, degno ringraziamento al maestro. Fu Pound a sconsigliarglielo (in una lettera del 24 dicembre 1921 gli scrisse netto: «I doubt if Conrad is weighty enough to stand the citation»), Eliot chinò il capo e si rivolse a Petronio. Thomas il grande, però, aveva capito qualcosa che a Ezra sfuggiva, cioè che Cuore di tenebra è la riscrittura del libro XI dell’Odissea e del libro VI dell’Eneide, che è una catabasi nelle viscere dell’animo umano, e che il fiume Congo è una specie di Flegetonte, e che Marlow è un pellegrino dantesco privo di Virgilio e di Beatrice – e che per questo, fisicamente e spiritualmente, si smarrisce –, che Conrad è un antico greco perché sa che il nostro destino è irrisolvibile e immodificabile, ma pure un severo profeta: sa che un’inestirpabile colpa scalcia.

Ha mai preso in considerazione le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui. Addirittura dalle proprie

Marlon Brando in forma di Kurtz

“Certi brani mi hanno sorpreso. Non sapevo di avere un cuore di tenebre e un’anima di fuorilegge. L’aveva il signor Kurtz, e io non l’ho trattato con la tranquilla indolenza di un dilettante. Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ho scritto”, scrive Conrad all’amico Arthur Symons nell’agosto 1908. Come ogni genio anch’egli “paga” di persona ciò che ha scritto, ne è martoriato, ferito, zappato. Ma c’è di più. Quella scrittura, terminata nel 1899 e durata tre mesi febbrili, ha qualcosa di straordinario anche per Conrad. Egli è letteralmente sopraffatto da quel libro, come noi dopo ogni lettura, come Coppola dopo averlo letto (per comprenderne il rivissuto delirio durante la lavorazione del film si legga il libro della moglie, Eleanor Coppola, Diario dall’Apocalisse. Dietro le quinte del capolavoro di Francis Ford Coppola, minimum fax, Roma 2006, e il “dietro le quinte” documentato da Fax Bahr e George Hickenlooper in Hearts of Darkness: A Filmaker’s Apocalypse, 1992).

Andiamo per gradi. L’editio princeps del testo fu pubblicata il 13 novembre 1902 in Inghilterra dalla Blackwood, nella raccolta Youth: A Narrative, and Two Other Stories. I tre racconti lunghi, procedimento che terrà a mente James Joyce, narrano la vicenda più o meno disperata – ogni romanzo di Conrad è il sunto di un’esperienza “limite” – di un uomo nei diversi stadi della sua esistenza. Youth, manco a dirlo, è la gioventù, Heart of Darkness l’età di mezzo, nel mezzo del cammino –  dantesco –, The End of Tether, il testo meno risolto, l’età ultima, la vecchiaia. In questi racconti c’è Conrad per intero. Il primo è quello più celebre, è il Conrad di The Nigger of the “Narcissus” e di The Shadow Line; l’ultimo, più lieve e più letterario, quello che compete con la scrittura leggiadra dell’amico Henry James, è il Conrad “laterale” di Chance e degli ultimi romanzi. E poi c’è il bubbone, il grumo di Cuore di tenebra. Che aleggia come un solido spettro nei libri maggiori, in Lord Jim e in Nostromo, in Typhoon come in Victory, in cui viene sbozzata la figura del “reietto” – che cospicua differenza con l’“inetto” novecentesco! –, ma è anche qualcos’altro, qualcosa di distinguibile e perentorio, qualcosa di non più replicabile. E che sta lì, come un’incisione e un suggello sullo stipite del “modernismo”. Quella scrittura tumorale e torta è il prototipo di ogni “romanzo limite”, azzardato e infero. Senza di esso William Faulkner e Malcolm Lowry sarebbero qualcosa d’altro, così come l’Hemingway maggiore – quello di The Snows of Kilimanjaro, ad esempio – e Cormac McCarthy. “Qualcosa di umano è più caro per me che tutta la ricchezza del mondo”, è l’inciso, ricavato dai Grimm, con cui Conrad marchia la raccolta Youth. È bene leggervi l’indizio di una poetica. Un uomo che s’incarica della propria tenebra, ne distilla la luce. Tutto qui, cosa “genuina, completa, cristallina, pura”, direbbe Brando/Kurtz.