Si insiste su un rapporto cementato dalla lealtà reciproca. Le tensioni delle scorse settimane vengono attribuite all’inesperienza del M5S, che ora starebbe recuperando un profilo e un’identità più marcati. Insomma, la tesi è che sarebbe azzardato pensare a una rottura a breve termine tra i «contraenti» governativi. E poi, su questioni come le vaccinazioni obbligatorie, si registra una sintonia preoccupante: col ministro della Salute, Giulia Grillo, del M5S, che con parole contorte apre la strada all’«autocertificazione».
Per paradosso, i contrasti potrebbero diventare la clausola di sopravvivenza di una maggioranza che è nata e conta di prosperare sull’anomalia del suo «contratto». D’altronde, non sarebbe la prima volta che due forze di governo cercano di coprire tutto l’arco parlamentare. E approfittano della debolezza delle opposizioni per interpretare più ruoli, anche in contraddizione. Così, si propongono dei provvedimenti e si criticano quelli dell’alleato, e viceversa: col patto tacito che il gioco delle parti non superi la soglia di pericolo. Almeno per ora. Il risultato è una leggera sensazione di stordimento da confusione. Ma forse, si tratta anche della conseguenza inevitabile di un modo di governare dominato dalla tattica.
«È un problema di A e di B». Quando si parla di immigrazione uno dice «A», l’altro «B». E quando c’è il decreto legge di dignità, le parti si invertono. «Ma intanto si va avanti. La diarchia Di Maio-Salvini può reggere», assicurano da Palazzo Chigi. Il pluriministro Di Maio fa di tutto per accreditare un «accordissimo» con Salvini. E quest’ultimo sta attento a non irritare un alleato che ha sofferto il suo protagonismo. Ognuno cura il proprio orto elettorale convivendo nel governo, benché la competizione sia nei fatti. Ma la Lega punta più al dominio del centrodestra che a svuotare il M5S: compito facile solo sulla carta.
Ora che i sondaggi accreditano un Carroccio intorno al 30 per cento, alla pari coi Cinque Stelle, per paradosso l’accordo asimmetrico emerso dalle urne del 4 marzo è più bilanciato. E dunque lo scontro è vissuto con una certa tranquillità: come se entrambi sapessero che comunque le cose non stanno andando così male. Funziona un patto di non aggressione che consente distinguo, smarcamenti ma non fratture. Così, quando la Corte di Cassazione due giorni fa ha chiesto il sequestro dei beni della Lega per una truffa di quasi 49 milioni di euro, si è scatenato il Pd. Ma il M5S non ha attaccato.
Eppure, il mantra dell’«onestà» è sempre stato uno spartiacque per i seguaci di Beppe Grillo. È stato usato come arma letale per colpire gli avversari politici. Stavolta, invece, Di Maio si è limitato a scaricare le responsabilità su Bossi, aggiungendo solo che le sentenze vanno rispettate. Di fatto, è una scelta di realpolitik per non mettere nell’angolo Salvini. Il leader leghista ha chiesto un incontro al capo dello Stato, Sergio Mattarella, rilanciando la tesi secondo la quale la sentenza della Cassazione sarebbe « un gravissimo attacco alla democrazia», hanno sostenuto «fonti della Lega». Un modo «per mettere fuori gioco per via giudiziaria il primo partito italiano».
In cambio, Salvini ha preso educatamente le distanze dal cosiddetto «decreto di dignità» voluto da Di Maio per riaffermare l’identità sociale grillina. Con malizia, è stata notata la sua assenza dal Consiglio dei ministri nel quale la misura è stata approvata. E ieri sia lui, sia altri ministri leghisti hanno fatto sapere che alcune norme saranno cambiate in Parlamento. Sanno che sono invise a pezzi importanti dell’elettorato leghista del Nord. E Forza Italia e Silvio Berlusconi non perdono occasione per ricordare all’«alleato Salvini» l’ostilità dei piccoli imprenditori sui contratti a termine ridisegnati nel provvedimento. Ma la sensazione è che nessuno, né Lega né M5S voglia calcare la mano.
C’è un gruzzolo di conflittualità potenziale che ognuno sembra mettere da parte, in attesa di tempi peggiori: quando l’anomalia del «contratto» diventerà scontro. Occorreranno mesi, però, perché l’equilibrio precario creato dalla «diarchia» si spezzi. In fondo, l’aggressività un po’ disperata delle opposizioni dimostra che altre soluzioni non esistono: nonostante cresca il rischio concreto di un isolamento dell’Italia in Europa. I rumori di fondo sulla chiusura della frontiera austriaca non sono avvisaglie amichevoli. Le parole allarmate dette ieri da Mattarella riflettono il timore per un’Italia vittima dell’allarmismo e delle tesi «sovraniste».
Corriere della Sera – Massimo Franco – 05/07/2018 pg. 9 ed. Nazionale.