A ricorrenze si sommano ricorrenze e a stretto giro di giorni si sono celebrati il mese scorso i cinquantennali delle due maggiori imprese concertistiche e discografiche dell’ex-Beatle George Harrison. Infatti se il 1° agosto del 1971 al Madison Square Garden di New York ebbe luogo il Concert for Bangladesh, il primo «live» benefico che unì grazie all’autore di Something alcune rockstar del tempo, il 6 agosto è uscita, con lo slittamento di qualche mese sulla data effettiva dei 50 anni dalla pubblicazione che avvenne nel novembre del ’70, l’edizione Super deluxe 5 cd/blu-ray Box Set di All Must Things Pass. Completamente remixato e addolcito, non ai livelli del «naked» di Let it Be, dall’ingombrante «Wall of Sound» di Phil Spector, «birichino», ma fece di peggio in seguito, co-produttore del disco, il triplo album, il primo della storia dei long playing, non fu come erroneamente molti ritengono il debutto solista di Harrison. In precedenza ancora in forza ai Beatles, il chitarrista pubblicò altri due dischi, ancor oggi forse non pienamente compresi.
ALMENO per quanto riguarda lo sperimentale «Electronic Sound». Questa fu una delle tante primizie che ancor adesso conserva il lavoro di maggior successo del dopo-Beatles. Eppure non si sarebbe creduto possibile per un Harrison stritolato dallo strapotere compositivo di Lennon – McCartney che sovente gli cassavano i brani, però capace di inanellare nell’ultimo periodo del gruppo capolavori come While My Guitar Gently Weeps, Here Comes the Sun e la citata Something (che però ha anche lo zampino di Lennon). Di certo il timido George desiderava da tempo metter mano alle canzoni che aveva accumulato nel corso dell’estremo quinquennio beatlesiano, filtrate però dalla sua nuova sensibilità che incrociava una prospettica oggi panreligiosità gandhiana (la criticata e processata My Sweet Lord ne è il manifesto oltre ad essere con Imagine la canzone più celebre post-Beatles) alle influenze country di The Band e di Dylan (celebre è la permanenza sul finire degli anni sessanta con lui nel buen retiro di Woodstock), fino al blues – power di Clapton (riverberato nella «Apple Jam» del terzo disco, quasi interamente strumentale). Non mancano infine gli echi beatlesiani, inevitabili nei testi delle canzoni (per ognuno dei Beatle fu traumatico lo scioglimento della band), con la presenza dell’organo gospel di Billy Preston, il quinto o sesto beatle tenendo nel conto George Martin, dei Badfinger e della batteria di Ringo, cui offrì la celebre Photograph.