La storia riscritta in silenzio

Dai nomi delle strade alle delibere comunali, dalle risoluzioni regionali alle ordinanze dei sindaci: così la destra che guida le amministrazioni locali legittima una lettura revisionista di fascismo e antifascismo
di Simonetta Fiori
Piccoli smottamenti, cadute non sempre appariscenti, più spesso sotterranee. Ma messi insieme producono una slavina invisibile che travolge i capisaldi della storia contemporanea. Il disegno di legge presentato da Fratelli d’Italia con l’equiparazione delle foibe all’Olocausto è solo la parte più scoperta di un fenomeno in rapida accelerazione che da Alessandria a Grosseto, da Dalmine a Vibo Valenzia, da Monfalcone a Lecce, dilaga in tutta la penisola rimbalzando di municipio in municipio, di borgo in borgo, lungo un’unica traiettoria disegnata dal revisionismo della destra.
La storia perde senso
Atti amministrativi comunali, risoluzioni di consigli regionali, delibere delle commissioni toponomastiche locali. E il presenzialismo di sindaci e assessori a cerimonie per i martiri della Repubblica sociale. Alla periferia delle istituzioni pubbliche, là dove governano i partiti di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, si riscrive la storia del Novecento. E le distinzioni tra fascismo e antifascismo, dittatura e libertà, ideologia violenta e tolleranza democratica rischiano di confondersi in una nuova memoria collettiva in cui “i morti non hanno colore politico” (copyright l’assessora veneta Elena Donazzan, Fratelli d’Italia), “i bimbi di Auschwitz e quelli delle foibe sono uguali” (copyright Salvini), e l’Almirante “fucilatore di partigiani” riacquista la sua verginità nell’immortale gesto di rendere omaggio a Berlinguer. La storia perde senso, per adattarsi a una nuova narrativa edulcorata in cui i conti con il passato si confondono nel comune lutto per la perdita umana. Non valgono più le bussole della coscienza democratica, la differenza tra giusto e sbagliato, la consapevolezza che “dietro il più idealista dei militi delle Brigate nere c’erano le camere di tortura, i rastrellamenti e l’Olocausto” e dietro il partigiano più spietato “la lotta per una società più libera e pacifica”, come ci ricorda Italo Calvino in una pagina de I sentieri dei nidi di ragno. Il paradigma vittimario cancella le differenze. E dietro la bandiera della riconciliazione si nasconde spesso un revanscismo agguerrito che bilancia in un’equazione impossibile i martiri della Shoah e le vittime del comunismo.
Il nuovo vocabolario della destra
È un revisionismo meno gridato rispetto a quello degli anni Novanta, quando bisognava cambiare le fondamenta costituzionali della “prima Repubblica” in nome dell’”anti-antifascismo”. Ora di antifascismo non si parla più, sostituito nel nuovo vocabolario della destra dalla parola “antitotalitario”. È accaduto l’anno scorso a Vicenza, dove su proposta dell’assessore Giovine — lo stesso che produsse l’encomio sulle cose buone realizzate da Mussolini — è stata abolita la clausola dell’antifascismo per l’uso degli spazi pubblici, a favore di una pronuncia antitotalitaria. Analoga mozione è stata approvata a Dalmine, alle porte di Bergamo. Sono sempre più numerosi i comuni che ricorrono al paradigma memoriale antitotalitario approvato dall’Europa, con la contestata omologazione del nazismo al comunismo. Il consiglio comunale di Asti è arrivato a revocare la cittadinanza onoraria concessa nel 1924 a Mussolini soltanto in cambio dell’adozione dell’intera risoluzione europea, «con la conseguente erogazione dei finanziamenti solo alle ricerche di ispirazione antitotalitaria», dice Mario Renosio dell’Istituto storico della Resistenza. Ma che cosa significa in un paese che non ha avuto una dittatura comunista? Uno studio sulla Brigata Garibaldi, storica formazione del partigianato rosso, potrebbe essere considerato
politically uncorrect ?
L’arma dell’antitotalitarismo
L’equivoco è chiarito bene da Filippo Focardi, direttore scientifico dell’Istituto nazionale Parri (che include la rete di tutti gli istituti della Resistenza) e autore di un recente libro sui nuovi revisionismi (
Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe , Viella editore). «La risoluzione europea è stata molto incoraggiata dai paesi dell’Europa orientale che non a torto rivendicano una maggiore considerazione per il carico di oppressione subita. Ma è inaccettabile la riduzione della complessa vicenda del comunismo internazionale a un’unica dimensione criminale: il comunismo italiano ha contribuito alla costruzione e alla difesa della democrazia nel nostro paese. Berlinguer non può essere equiparato a un aguzzino della Stasi e neppure alla terribile nomenclatura dell’Est». Risulta quindi paradossale mettere sullo stesso piano i nipotini di Mussolini e quelli di Gramsci. «Se dovessimo dare retta ai tanti comuni retti dalla destra, un gesto come quello del presidente Sarkozy che all’atto di insediamento lesse le ultime parole scritte da un partigiano comunista risulterebbe eversivo o terribilmente inappropriato. E stiamo parlando del presidente della destra repubblicana francese!».
Dalla parte di Salò
Ma da noi una Droit repubblicana non c’è, o è ancora molto fragile. E se l’onda neorevisionistica degli anni Novanta proponeva di abolire la festa del 25 aprile, oggi la tendenza dell’attuale destra è celebrarla: dalla parte dei camerati. È accaduto quest’anno in Veneto, dove l’assessora regionale all’Istruzione Donazzan ha partecipato alla cerimonia in memoria dei militi del Corpo di Sicurezza Trentino, artefici di rastrellamenti, distruzioni e stragi al soldo dei nazisti. Criticata dal giornale dell’Anpi, Patria Indipendente, che vigila su questi smottamenti, l’esponente di Fratelli d’Italia ha replicato che tutti i morti meritano rispetto. A Codevigo, nel padovano, tra aquile mussoliniane e stemmi littori è comparso anche il sindaco, mentre a Miane, nella provincia di Treviso, il primo cittadino ha dovuto rinunciare all’ultimo istante per una protesta dell’Anpi: il suo emissario era già pronto per la commemorazione in camicia nera. A Gorizia l’acme è stato raggiuto nel 2019 quando una delegazione di reduci della X Mas è stata ricevuta in municipio, in un tripudio di gagliardetti e saluti romani. Il Covid, fortunatamente, ha sospeso il lugubre rituale.
La verità di Stato sulle foibe
Nella mappa della revisione storiografica, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia sono le regioni più operose, con una crescente produzione di risoluzioni consiliari che si concentrano sulla questione delle foibe. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di condannare i “negazionisti”, se non fosse che nella categoria vengono incluse le più alte autorità scientifiche in materia, a cominciare dal professor Raoul Pupo, bacchettato per la sua guida realizzata con l’Irsrec (l’istituto della Resistenza di Trieste). La strada è quella tracciata nel 2019 dal consiglio regionale friulano, seguito quest’anno da quello veneto. Il criterio delle due risoluzioni è il medesimo: esiste sulle foibe una verità ufficiale che definisce entità del fenomeno (sciaguratamente ingigantito) e sue caratteristiche (sotto la categoria di “pulizia etnica”). Chi si discosta dalla storia sancita per legge viene escluso dai finanziamenti. In realtà si è trattato di iniziative propagandistiche a cui non è seguita finora alcuna conseguenza. Resta il valore simbolico di una campagna revanscista che utilizza le foibe in chiave vittimistica per pareggiare i conti tra crimini del fascismo e crimini del comunismo.
I no a Liliana Segre
In questa ossessione parificatrice si può arrivare a negare la cittadinanza a Liliana Segre perché testimone di Auschwitz e quindi espressione d’una memoria ritenuta assurdamente di parte, che deve essere bilanciata con la memoria di un crimine di segno politico opposto. Dopo Sesto San Giovanni, Piombino (poi pentita) e Gorizia, qualche settimana fa anche Arzignano nel Vicentino ha detto di no alla senatrice a vita: «La sua opera non è legata alla nostra comunità», s’è giustificato il sindaco, rendendo ancora più grave il rifiuto. La variante del “no” consiste nell’accogliere l’omaggio a Segre, ma a condizione di bilanciarlo con una via dedicata ad Almirante. Ci ha provato lo scorso anno il comune di Verona: ma a far saltare l’improvvido gemellaggio è stata la stessa senatrice a vita che ha denunciato la sua incompatibilità con il segretario di redazione della Difesa della Razza.
Allora la strada intestata al leader missino fu opportunamente messa via, salvo rinascere pochi mesi fa a Zevio, un comune a meno di venti chilometri dal centro storico di Verona. Basta aspettare.
I nomi delle strade
Sbaglia chi liquida la guerra degli indirizzi come una battaglia da strapaese, sul genere dei romanzi di Guareschi. I nomi di strade e piazze rappresentano il nostro patrimonio civile, ciò che decidiamo di mantenere o di buttare via della nostra eredità culturale, come racconta Deirdre Mask nel suo bellissimo Le vie che orientano (Bollati Boringhieri). I personaggi e gli eventi ricordati nelle segnaletiche rappresentano la storia in cui ci riconosciamo, o come direbbe Paul Ricoeur — evocato da Liza Candidi nell’introduzione — “un debito che significa nel presente”. Nei confronti di chi siamo debitori, secondo la destra postfscista e sovranista? Il primato dell’odonomastica appartiene ad Almirante, nel totale oblio delle sue responsabilità ne La difesa della razza e poi da capo di gabinetto nel governo della Repubblica Sociale Italiana: fu proprio lui a redigere il famigerato manifesto della morte che decretava la fucilazione immediata dei partigiani. L’avrai, camerata Almirante la via che pretendi da noi italiani è il profetico titolo ispirato a Calamandrei scelto da Carlo Ricchini per il volume che ricostruisce la storia del manifesto (4 Punte edizioni). Ma le schede celebrative — come quella del comune Nicotera, in provincia di Vibo Valenzia — preferiscono concentrarsi sull’eroismo militare in Libia o sui viaggi in terza classe. Al comune di Terracina — ma non è il solo — è venuta l’idea di proporre l’accoppiata toponomastica con Berlinguer, mentre a Lecce è stata adottata la singolare formula: al segretario missino una delle strade centrali, Berlinguer e Pertini confinati in periferia. E a proposito del presidente partigiano: poco prima della festa della Liberazione, quest’anno, è stato costretto a sloggiare da una strada di Torano (Rieti). Al suo posto Nazario Sauro, irredentista.
La Resistenza commissariata
Gli istituti storici della Resistenza osservano il fenomeno con inquietudine, anche perché sono stati i primi a subire tagli e in qualche caso un vero sfratto (a Sesto San Giovanni, a Lodi e a Grosseto). In Umbria, la regione che ha patrocinato la festa del libro con Casa Pound, l’Isuc è stato commissariato. E il nuovo timoniere, di fede leghista, ha pensato bene di celebrare quest’anno il suo primo 25 aprile con una cerimonia di pacificazione tra partigiani e saloini: ricordare la vittoria dell’antifascismo deve essergli apparso scortese o troppo di parte. Sarà questa la nuova vulgata nazionale, in caso di vittoria politica delle destre? Occorrerà porsi il problema, prima che sia troppo tardi.
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