Le conseguenze dell’amore

Prato Al Museo di Palazzo Pretorio le opere di 22 artiste contemporanee in dialogo con le Annunciazioni Il curatore Bonami: accostamenti arditi in una città rivolta al futuro. Firenze non è riuscita a cambiare pelle

di Chiara Dino

Occorre uno sguardo laterale per accostarsi alla mostra che inaugura sabato al museo di Palazzo Pretorio, a Prato, per la curatela di Francesco Bonami. Hi Woman! La notizia del futuro va attraversata con occhio laico cercando più che corrispondenze cortocircuiti tra le Annunciazioni qui custodite — sono 9, come ricorda nel testo di accompagnamento alla mostra la direttrice Rita Iacopino e coprono un lasso di tempo che va dalla metà del Trecento all’Ottocento — e le 22 artiste contemporanee scelte da Bonami.

Il tema è l’Annunciazione con tutto quello che essa evoca: «Lo sconvolgente potere di dare la vita di ogni donna e quello peculiare di una sola, Maria, a cui, senza che possa avere voce in capitolo, l’Arcangelo Gabriele annuncia che avrà un figlio senza aver mai conosciuto uomo, che questo figlio sarà un maschio, avrà nome Gesù — e non sarà lei a sceglierlo — e cambierà il corso della storia. Un intervento dall’alto sconvolgente in cui, a fronte di un’enorme responsabilità, alla povera donna non viene conferito alcun potere». Presentata così l’esposizione, che si protrarrà fino al 27 febbraio, potrebbe sembrare un intervento politically correct, quasi femminista. Ma non è questo l’intento del curatore. Perché «Se generare — è ancora lui che parla — è un atto eccezionale, quello che ne consegue, la vita, è…. così normale». Quello che arriverà dopo, il futuro, per restare al titolo della mostra, può contenere tutto. Perché il tutto che è la realtà è frutto di un atto generativo. Ogni associazione è lecita anche se, nella scelta delle 22 opere, ci accorgeremo che, per Bonami i temi del femminile, sono centrali , tanto da fargli scrivere, «la vita di un artista è una gravidanza infinita».

Ma prendiamo quella apparentemente più distante dal fulcro della mostra. La troviamo al primo piano del palazzo, insieme ad altre, ad accompagnare le Annunciazioni trecentesche e quattrocentesche della collezione. Il Burned Bridge (2011) di Marianne Vitale, americana interessata ai materiali di scarto, è un ponte realizzato con legno di scarto bruciato. Un ponte che evoca il ruolo di chi genera — la donna — che è ponte tra la non vita e la vita. Tra le opere più interessanti, l’omaggio a Isabelle Huppert l’Isabelle and Marie (2005) di Roni Horn in cui l’attrice appare in due foto scattate dall’artista americana con l’intento di rievocare il suo ruolo in un Un affare di donne di Claude Chabrol. «Sono due scatti — dice Bonami — in cui il piano della sensualità inciampa con il destino biologico di ogni donna quando avverte il peso dell’età». Ma c’è dell’altro e ha a che fare con la storia di Marie Latour, protagonista del film francese, che, durante l’occupazione tedesca in Francia, aiuta prima una donna, poi un’altra e un’altra, ad abortire. Qualunque donna sa che, tra il generare e l’abortire c’è un nesso, tragico, comprensibile solo al femminile e che, il confine tra la vita e la non vita è consustanziale al mistero della stessa vita.

È su al secondo piano, accostata a opere più tarde — le due Annunciazioni di Giovanni Bilivert (1630) e di Giovan Domenico Ferretti (1726) — il tenero Baloo giallo, l’Have you seen me before? (2008) di Paola Pivi, un orso semi spalmato a terra come quello de Il libro della Giungla che, al posto del suo pelo marrone, ha piume gialle. «Un orso — suggerisce Bonami —che, perduta la sua identità, acquisisce quella di un canarino». Un animale che, trasformandosi, dà vita a un essere che ci intenerisce e ci fa sorridere.

È sempre Bonami a prenderci virtualmente per mano e a farci riflettere sui tre contributi video presenti in mostra: sono Water Motor (1978) di Babette Mangolte, francese ma basata a New York, Saint Sebastian , (2001) dell’indonesiana Fiona Tan e Tragedy Competion (2004) della sudcoreana Koo Donghee. «Il primo — dice — è molto bello». Documenta un assolo della coreografa Trisha Brown e con «il silenzio e l’armonia del movimento ci dà l’illusione di poter abbandonare il peso del corpo». «Il secondo rappresenta un rito di iniziazione di ragazzi e ragazze giapponesi alla prova del tiro con l’arco, «un rito di passaggio e di trasformazione». Il terzo è una gara di pianto tra le partecipanti a un reality.

In mostra ci sono anche un’opera di Jenny Saville, Fate 3 , con la carnalità violenta che è propria dell’artista britannica a cui per ora Firenze dedica una monografica, e il bellissimo olio su tela della sudafricana Marlene Dumas, quel Yellow Towel (2004) che accosta semplicemente una madre e una figlia. Accostamenti arditi che trovano nella città di Prato un terreno fecondo.

«La vocazione al contemporaneo di questa città — conclude il critico d’arte e curatore — è un fatto che deriva dalla sua natura stessa e dalla forza della sua economia. Prato è una città industriale e come tale ha un sensibilità verso il presente e il futuro non paragonabile a quella di Firenze. Già l’esperienza stessa del Centro Pecci, che sta qui dalla fine degli anni Ottanta, è un segnale esplicito di questa vocazione verso il contemporaneo. È qualcosa di impensabile a Firenze, che diciamocelo una volta per tutte, è una città di e per l’arte antica che, seppure ha fatto molti sforzi in una direzione nuova, non è mai riuscita a cambiare pelle. Anche il Museo Novecento, che oggi ospita Saville e dove si fanno belle cose, quando l’ho visitato aveva dentro quattro gatti. Chi riesce a fare bene in termini di numeri è Palazzo Strozzi, ma con mostre blockbuster».

 

 

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