L’alleanza fra populisti e progressisti è un rischio da tentare in Spagna e Italia

Juan Luis Cebrián

Giorni fa, durante una breve vacanza estiva, ho avuto l’opportunità di rivivere i forti legami storici che uniscono due Paesi che furono culla di imperi: l’Italia e la Spagna. Il caso ha voluto che il ricordo di Carlo di Borbone, che lasciò la corona di Napoli per cingere quella spagnola, si mescolasse con le notizie sulle crisi di governo a Roma e a Madrid, che offrono paralleli non trascurabili. Il più ovvio ha a che fare con la possibilità che i partiti socialdemocratici possano o debbano dare vita a un governo di coalizione con formazioni che si definiscono anti-sistema, i cui leader continuano a ripetere, alla stregua di piccoli Machiavelli, che non sono interessati a mantenere lo status quo ma hanno intenzione di rovesciarlo. Anche se, mentre Pedro Sánchez rifiuta l’ingresso dei ministri di Podemos nel suo governo, Giuseppe Conte cerca di mettere insieme M5S e Pd in cerca di stabilità, quindi, se non proprio lo status quo, qualcosa che gli assomiglia parecchio .
In questo caso, non pochi si chiedono come potrebbero convivere sistema e anti-sistema, temendo che l’esperimento possa dare alla luce un mostro a due teste, due governi in uno, cioè il contrario di qualsiasi stabilità, come già visto d’altra parte nell’avventura Di Maio-Salvini; e se quindi non sarebbe meglio tornare alle urne, nonostante la stanchezza dell’elettorato, particolarmente evidente in Spagna.
Condividere il potere
Vale la pena quindi, tentare una riflessione sulla natura della democrazia rappresentativa e sui mali che l’ affliggono. Inizierò rispondendo alla domanda iniziale. È lecito e conveniente per i partiti democratici che sono stati al governo negli ultimi decenni condividere il potere con i populismi nati nel pieno della protesta contro quegli stessi partiti? Secondo me sì, al contrario di chi pensa che sarebbe come mettere la volpe nel pollaio. Tra l’altro, sarebbe necessario definire chi sia la vera volpe in questa storia. Per giustificare la mia risposta, è sufficiente fare appello ai valori e ai principi classici del sistema rappresentativo: la democrazia è prima di tutto la regola della maggioranza, insieme al rispetto dei diritti delle minoranze e alla separazione dei poteri.
Chi rivendica la democrazia assembleare, un segno identitario dei populisti di sinistra, dimentica troppe spesso queste ultime due condizioni. Ma chi si presenta come custode del Graal del regime delle libertà non può continuare a ignorare che l’emergere di nuovi partiti, che ha prodotto la frammentazione parlamentare, è in gran parte dovuto alla corruzione, al clientelismo e persino al banditismo dei dirigenti delle formazioni tradizionali.
Il modello europeo dopo la fine della Seconda Grande Guerra fu costruito attraverso un’alleanza tra democrazia cristiana e socialdemocrazia, apertamente contraria ai postulati marxisti. Se entrambe le formazioni sono in declino nella maggior parte d’Europa, quando, in alcuni casi, non completamente sparite, è perché con il passare del tempo hanno tradito la loro vocazione e dimenticato il mandato popolare, allontanandosi dai problemi reali e quotidiani dei cittadini in un momento di grandi mutamenti sociali, aumento delle disuguaglianze e incertezza sul futuro.
Paradossalmente, sono diventati un vero pericolo per la sopravvivenza del sistema che sostengono di difendere. I populisti di sinistra sono cresciuti al grido di «non ci rappresentano», ma sono i populisti reazionari, riuniti nelle formazioni storiche, a essere nell’insieme molto più aggressivi e dannosi. Questo è il motivo per cui non le formazioni tradizionali, ma la forza delle istituzioni ha permesso all’Italia di sopravvivere a Berlusconi, così come sopravviverà a Salvini, e consentirà al Regno Unito di sopravvivere a Boris Johnson o agli Stati Uniti a Trump.
L’oligarchia dei leader
Già oltre un secolo fa, Robert Michels aveva definito la legge ferrea dei partiti, che tende a trasformare la poliarchia democratica (il governo di molti) in un’oligarchia incarnata dai leader. Giovanni Sartori stabilì anche le differenze tra le democrazie del pluralismo moderato e quello che chiamava pluralismo polarizzato, che è ciò che si vede oggi la Spagna e che ha dato alla luce il governo Di Maio-Salvini. In questo modello, le ideologie trionfano sulla ricerca di soluzioni e il vecchio bipartitismo viene sostituito da uno scontro tra blocchi. Per questo credo che un’alleanza tra rappresentanti dell’uno e dell’altro mondo (istituzionale ed emergenziale) possa e debba aiutare la rigenerazione che tanti predicano. E soprattutto evitare che in nome del governo per il popolo e per il popolo, si scelga un vero malgoverno.
Non voglio negare le difficoltà e i pericoli che comporta l’esperimento, un pretesto con il quale Sánchez in Spagna, con solo 123 deputati in una camera da 350, si ostina, inutilmente e arbitrariamente, a voler formare un governo monocolore. Dopotutto, gli anti-sistema, anche se non lo confessano o non lo sanno, vogliono costruire un nuovo ordine con nuove regole senza le quali è impossibile che funzioni. Siamo di fronte a un’insurrezione quasi mondiale contro gli effetti della globalizzazione e l’abuso dei potenti, ma le rivoluzioni non la fanno finita con le élite, piuttosto aspirano a sostituirle. Per evitare situazioni odiose come quelle del Venezuela, il rispetto della legge e della Costituzione sono indispensabili. In questo caso, un’alleanza tra M5S, il partito con più parlamentari in Italia, sebbene si sia presentato come antipartito, e la ricomposizione un po’ ambigua della socialdemocrazia, lungi dall’essere una minaccia alla democrazia, può costituire una speranza e un bene per i cittadini. Peccato che in Spagna il Psoe non impari la lezione quando si tratta di scendere a patti con Podemos, mentre l’estrema destra continua a ripetere la sua solfa: senza di noi è il caos.
Traduzione di Carla Reschia

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