Gli shock della storia
Il devastante terremoto del 1755 fu un evento cruciale per il pensiero. Un trauma collettivo, che influenzò Voltaire, Rousseau, Kant. E cambiò la visione del mondo. Oggi più che sul ruolo della sofferenza nel misterioso piano della creazione, l’epidemia fa riflettere sui punti deboli della società
Gabriele Pedullà
Come resistere al fascino dell’analogia? Il contagio, la quarantena, il vacillare delle certezze, la paura… Anche grazie a Boccaccio, ogni epidemia fa pensare un poco alla Peste Nera, nonostante il numero dei decessi sconsigli in partenza qualsiasi comparazione. Le cose sono molto diverse però se guardiamo agli effetti della pandemia sulle idee. Basta scorrere i commenti dei principali giornali italiani e stranieri per rendersi conto come in queste settimane l’emergenza sanitaria abbia innescato anzitutto un processo collettivo ad alcuni dei dogmi che hanno ispirato le scelte politiche ed economiche degli ultimi decenni: quasi che l’irrompere in scena di un elemento imprevisto – il coronavirus – avesse improvvisamente rivelato a tutti, ma proprio tutti, che il re è nudo. Lo si nota in particolare nei commenti a caldo dei filosofi: da Giorgio Agamben a Jean-Luc Nancy, da Alain Badiou a Slavoj Žižek, da Roberto Esposito a Pierre Dardot e Christian Laval – come dire lo stato maggiore del pensiero europeo. Dimenticate le affinità superficiali, è proprio questo profluvio di interventi a sconsigliare i paragoni con la Peste Nera. Allora, i contemporanei di Boccaccio continuarono a ragionare sul disastro con le categorie tradizionali della punizione divina; oggi invece la crisi sanitaria ha preso da subito la forma di una requisitoria contro quarant’anni di ordine neoliberale. Una intera visione del mondo viene messa sotto accusa – cosa che nel 1348 non avvenne. Per chi proprio non volesse rinunciare a cercare nel passato un termine di paragone per il nostro presente potrebbe allora avere più senso rivolgersi a un altro disastro naturale che scosse nel profondo le coscienze europee: il grande terremoto di Lisbona.
La storia è nota. La mattina del 1° novembre 1755, Festa di Ognissanti, tra le 9 e 30 e le 9 e 40 tre violentissime scosse di terremoto investirono il continente europeo e l’Africa del Nord, abbattendosi con particolare forza sulla capitale del Portogallo. Dopo la devastazione giunta dal sottosuolo, dal mare si rovesciarono sui superstiti che si erano riversati in strada delle onde alte tra i cinque e i dieci metri; infine il crollo dei camini provocò numerosi incendi nei quartieri non raggiunti dall’acqua, in quello che sembrò un inspiegabile accanimento degli elementi contro la popolazione di Lisbona. Le ricerche più recenti parlano di 75mila vittime su un totale di 150mila cittadini e di una perdita secca tra il 40% e il 300% del prodotto interno lordo del Portogallo di allora.
Il turista che oggi visita Lisbona riconosce ovunque le tracce della distruzione: tanto nelle rovine del Convento Do Carmo, rimasto in piedi nonostante il crollo del soffitto della navata centrale che ne fa oggi una suggestiva chiesa a cielo aperto, quanto nel centro cittadino della Baixa, ricostruito secondo un piano regolatore ispirato ai principi iper-razionalistici dell’Illuminismo. La devastazione di Lisbona rappresentò un trauma per due o tre generazioni di europei, i quali vissero quella tragedia come una sorta di test inaggirabile per le credenze religiose e le teorie dei filosofi sulla natura e sulla società. Un poco come avviene in questi giorni.
Con qualche forzatura si potrebbe sostenere persino che si trattò della prima grande battaglia filosofica combattuta “a mezzo stampa”, grazie a periodici e gazzette che ripresero e rilanciarono le idee dei vari contendenti. Mentre i Gesuiti denunciavano la generale corruzione dei costumi, che avrebbe indotto Dio a incenerire Lisbona come una novella Sodoma, i grandi pensatori illuministi colsero l’occasione per fare i conti con l’eterno problema del male. Perché la sofferenza? E perché quella sofferenza? In riva al Tago – notò tempestivamente Voltaire in un “Poema sul disastro di Lisbona” – gli uomini non erano peggiori di quelli di Londra e Parigi. E i bambini, poi? Il bersaglio del suo attacco era soprattutto Leibniz, il filosofo che mezzo secolo prima, nei “Saggi di teodicea”, aveva solennemente proclamato che, nonostante tutto, gli uomini vivevano nel migliore dei mondi possibili. Dopo Lisbona non c’era più spazio per nessuna forma di ottimismo metafisico.
I Gesuiti erano un nemico potente, e nella sua polemica Voltaire si aspettava di trovare un alleato in Rousseau. Invece, proprio dall’amico giunse per lettera una reprimenda inattesa. In nome della innocenza della Natura e della corruzione della civiltà, Rousseau prese infatti le difese dell’incomprensibile disegno divino. La responsabilità del disastro era da attribuirsi in massima parte agli uomini, i quali non solo erano tornati alle loro dimore troppo presto, mossi dal desiderio di mettere in salvo le proprie cose, finendo così travolti dalle acque e dalle rovine, ma, ben prima, avevano preparato le loro tombe edificando in uno spazio tanto ristretto non meno di ventimila palazzi irragionevolmente alti, sino a sei o sette piani. La miseria comune, se non altro, avrebbe temporaneamente rimediato a uno dei maggiori guasti della civiltà: l’ineguaglianza sociale.
Del terzo grande pensatore coinvolto nella querelle – niente meno che Immanuel Kant – più che i tre scritti tecnici pubblicati a caldo sulla scienza dei terremoti, conta l’impressione lasciata dagli eventi di Lisbona sul lungo periodo. Alla luce dell’ossessione con cui sappiamo che Kant si era dedicato per mesi a collezionare quante più notizie possibile sulla distruzione della città, come non pensare che le riflessioni della “Critica del giudizio” sul sublime siano nate da una sorta di autoanalisi del proprio sentimento di attrazione e smarrimento di fronte alla potenza annientatrice della natura? Persino la scoperta di una nuova dimensione dell’esperienza estetica non più associata alle idee di ordine e di equilibrio potrebbe avere avuto il suo germe tra le rovine della capitale portoghese.
Prese in gruppo, le riflessioni sul coronavirus sembrano distinguersi soprattutto per due elementi rispetto al dibattito settecentesco sul terremoto di Lisbona. Anzitutto, per quanto diversi e discordanti nei loro giudizi, i pensatori di oggi sembrano tutti d’accordo almeno su un punto: del male naturale interessa unicamente la dimensione storica; se una epidemia ha un valore filosofico è per quello che essa promette di svelarci sui punti deboli della nostra società – l’ansia securitaria e l’abuso dello stato di eccezione (Agamben), la medicalizzazione della politica all’insegna di un progetto di immunizzazione della vita stessa (Esposito), l’impossibilità di identificare il “pubblico”, e tanto meno il “comune”, con lo Stato (Dardot e Laval)… – non certo per riprendere a discutere del ruolo della sofferenza nel grande piano della creazione. La metafisica, per così dire, si è ritirata, lasciando campo libero alla teoria politica.
Va notata però anche una seconda differenza decisiva. Per gli illuministi lo shock del terremoto di Lisbona rappresentò l’occasione per formulare pensieri inediti o agì da catalizzatore di idee che già da tempo stavano prendendo forma (Voltaire, per esempio, rinnegò l’ottimismo metafisico della sua giovinezza). Sinora i filosofi che hanno preso pubblicamente la parola hanno cercato invece nella pandemia soprattutto nuove prove a sostegno delle critiche che da tempo muovevano ad alcuni dei dispositivi politici sui quali si regge la società contemporanea. L’alieno o – per usare un vocabolo caro a Nancy – l’intruso, cioè il coronavirus, è dunque osservato da loro attraverso la categoria della ripetizione piuttosto che della differenza: appare tutt’al più come una poderosa conferma di quel che già temevamo di sapere.
Probabilmente è ancora troppo presto, ma nei prossimi mesi dovremo chiedere di più alla pandemia come parziale risarcimento per le tremende sofferenze e i prolungati disagi che sta provocando. Oltre quattro miliardi di individui vivono ormai da settimane in una condizione che nessuno scrittore di science fiction si era mai spinto a pronosticare. Con alcune delle nostre libertà, se ne sono andate molte delle nostre sicurezze – e di colpo tante cose che sembravano scontate si stanno rivelando a tutti come il frutto di inveterate consuetudini. Volente o nolente, il mondo sta insomma partecipando a un inedito esperimento filosofico di massa, nel quale persino gli atteggiamenti sino a ieri considerati più naturali si mostrano di colpo in tutta la loro convenzionalità. È quello che in letteratura si chiama “effetto di straniamento” (una tecnica conoscitiva tra l’altro molto cara proprio a Voltaire): ed è da qui che tocca ripartire. Quale momento migliore per provare a immaginare un mondo almeno un po’ diverso? Può essere paradossale, ma proprio la reclusione forzata di queste settimane di lutti e di paura potrebbe restituirci un poco di quella irrinunciabile carica utopica (vale a dire di quella capacità di pensare l’impensato) che l’Occidente da troppo tempo pare aver smarrito. E magari, quando riprenderemo finalmente a circolare a piacimento per le strade, potremmo scoprirci tutti più liberi, davvero.
La storia è nota. La mattina del 1° novembre 1755, Festa di Ognissanti, tra le 9 e 30 e le 9 e 40 tre violentissime scosse di terremoto investirono il continente europeo e l’Africa del Nord, abbattendosi con particolare forza sulla capitale del Portogallo. Dopo la devastazione giunta dal sottosuolo, dal mare si rovesciarono sui superstiti che si erano riversati in strada delle onde alte tra i cinque e i dieci metri; infine il crollo dei camini provocò numerosi incendi nei quartieri non raggiunti dall’acqua, in quello che sembrò un inspiegabile accanimento degli elementi contro la popolazione di Lisbona. Le ricerche più recenti parlano di 75mila vittime su un totale di 150mila cittadini e di una perdita secca tra il 40% e il 300% del prodotto interno lordo del Portogallo di allora.
Il turista che oggi visita Lisbona riconosce ovunque le tracce della distruzione: tanto nelle rovine del Convento Do Carmo, rimasto in piedi nonostante il crollo del soffitto della navata centrale che ne fa oggi una suggestiva chiesa a cielo aperto, quanto nel centro cittadino della Baixa, ricostruito secondo un piano regolatore ispirato ai principi iper-razionalistici dell’Illuminismo. La devastazione di Lisbona rappresentò un trauma per due o tre generazioni di europei, i quali vissero quella tragedia come una sorta di test inaggirabile per le credenze religiose e le teorie dei filosofi sulla natura e sulla società. Un poco come avviene in questi giorni.
Con qualche forzatura si potrebbe sostenere persino che si trattò della prima grande battaglia filosofica combattuta “a mezzo stampa”, grazie a periodici e gazzette che ripresero e rilanciarono le idee dei vari contendenti. Mentre i Gesuiti denunciavano la generale corruzione dei costumi, che avrebbe indotto Dio a incenerire Lisbona come una novella Sodoma, i grandi pensatori illuministi colsero l’occasione per fare i conti con l’eterno problema del male. Perché la sofferenza? E perché quella sofferenza? In riva al Tago – notò tempestivamente Voltaire in un “Poema sul disastro di Lisbona” – gli uomini non erano peggiori di quelli di Londra e Parigi. E i bambini, poi? Il bersaglio del suo attacco era soprattutto Leibniz, il filosofo che mezzo secolo prima, nei “Saggi di teodicea”, aveva solennemente proclamato che, nonostante tutto, gli uomini vivevano nel migliore dei mondi possibili. Dopo Lisbona non c’era più spazio per nessuna forma di ottimismo metafisico.
I Gesuiti erano un nemico potente, e nella sua polemica Voltaire si aspettava di trovare un alleato in Rousseau. Invece, proprio dall’amico giunse per lettera una reprimenda inattesa. In nome della innocenza della Natura e della corruzione della civiltà, Rousseau prese infatti le difese dell’incomprensibile disegno divino. La responsabilità del disastro era da attribuirsi in massima parte agli uomini, i quali non solo erano tornati alle loro dimore troppo presto, mossi dal desiderio di mettere in salvo le proprie cose, finendo così travolti dalle acque e dalle rovine, ma, ben prima, avevano preparato le loro tombe edificando in uno spazio tanto ristretto non meno di ventimila palazzi irragionevolmente alti, sino a sei o sette piani. La miseria comune, se non altro, avrebbe temporaneamente rimediato a uno dei maggiori guasti della civiltà: l’ineguaglianza sociale.
Del terzo grande pensatore coinvolto nella querelle – niente meno che Immanuel Kant – più che i tre scritti tecnici pubblicati a caldo sulla scienza dei terremoti, conta l’impressione lasciata dagli eventi di Lisbona sul lungo periodo. Alla luce dell’ossessione con cui sappiamo che Kant si era dedicato per mesi a collezionare quante più notizie possibile sulla distruzione della città, come non pensare che le riflessioni della “Critica del giudizio” sul sublime siano nate da una sorta di autoanalisi del proprio sentimento di attrazione e smarrimento di fronte alla potenza annientatrice della natura? Persino la scoperta di una nuova dimensione dell’esperienza estetica non più associata alle idee di ordine e di equilibrio potrebbe avere avuto il suo germe tra le rovine della capitale portoghese.
Prese in gruppo, le riflessioni sul coronavirus sembrano distinguersi soprattutto per due elementi rispetto al dibattito settecentesco sul terremoto di Lisbona. Anzitutto, per quanto diversi e discordanti nei loro giudizi, i pensatori di oggi sembrano tutti d’accordo almeno su un punto: del male naturale interessa unicamente la dimensione storica; se una epidemia ha un valore filosofico è per quello che essa promette di svelarci sui punti deboli della nostra società – l’ansia securitaria e l’abuso dello stato di eccezione (Agamben), la medicalizzazione della politica all’insegna di un progetto di immunizzazione della vita stessa (Esposito), l’impossibilità di identificare il “pubblico”, e tanto meno il “comune”, con lo Stato (Dardot e Laval)… – non certo per riprendere a discutere del ruolo della sofferenza nel grande piano della creazione. La metafisica, per così dire, si è ritirata, lasciando campo libero alla teoria politica.
Va notata però anche una seconda differenza decisiva. Per gli illuministi lo shock del terremoto di Lisbona rappresentò l’occasione per formulare pensieri inediti o agì da catalizzatore di idee che già da tempo stavano prendendo forma (Voltaire, per esempio, rinnegò l’ottimismo metafisico della sua giovinezza). Sinora i filosofi che hanno preso pubblicamente la parola hanno cercato invece nella pandemia soprattutto nuove prove a sostegno delle critiche che da tempo muovevano ad alcuni dei dispositivi politici sui quali si regge la società contemporanea. L’alieno o – per usare un vocabolo caro a Nancy – l’intruso, cioè il coronavirus, è dunque osservato da loro attraverso la categoria della ripetizione piuttosto che della differenza: appare tutt’al più come una poderosa conferma di quel che già temevamo di sapere.
Probabilmente è ancora troppo presto, ma nei prossimi mesi dovremo chiedere di più alla pandemia come parziale risarcimento per le tremende sofferenze e i prolungati disagi che sta provocando. Oltre quattro miliardi di individui vivono ormai da settimane in una condizione che nessuno scrittore di science fiction si era mai spinto a pronosticare. Con alcune delle nostre libertà, se ne sono andate molte delle nostre sicurezze – e di colpo tante cose che sembravano scontate si stanno rivelando a tutti come il frutto di inveterate consuetudini. Volente o nolente, il mondo sta insomma partecipando a un inedito esperimento filosofico di massa, nel quale persino gli atteggiamenti sino a ieri considerati più naturali si mostrano di colpo in tutta la loro convenzionalità. È quello che in letteratura si chiama “effetto di straniamento” (una tecnica conoscitiva tra l’altro molto cara proprio a Voltaire): ed è da qui che tocca ripartire. Quale momento migliore per provare a immaginare un mondo almeno un po’ diverso? Può essere paradossale, ma proprio la reclusione forzata di queste settimane di lutti e di paura potrebbe restituirci un poco di quella irrinunciabile carica utopica (vale a dire di quella capacità di pensare l’impensato) che l’Occidente da troppo tempo pare aver smarrito. E magari, quando riprenderemo finalmente a circolare a piacimento per le strade, potremmo scoprirci tutti più liberi, davvero.