La città del «Libera Chiesa in libero Stato» e del cattolicesimo vissuto come dottrina sociale si riversa in piazza (compresi gli atei e la Fiom).
«Per esempio, lei non sa cos’è il toluolo». Filiberto Martinetto mette lo sguardo di traverso davanti alla grave mancanza dell’interlocutore. «Ecco, chieda ai cinesi, che lo usano tanto».
Il primo imprenditore chiamato a parlare davanti a papa Bergoglio elenca gli anni peggiori della sua vita, uno per ogni dito di mani tozze e ancora forti che portano i segni di una gioventù passata al telaio. «Dal 2009 a oggi, non salvo nulla. Nell’ottobre del 2014 entrarono in ufficio le mie tre figlie, che lavorano tutte con me. Papà, non ce la facciamo più a tirare avanti, ma che senso ha tutto questo?». Filiberto, vuole essere chiamato per nome, come impone ai suoi dipendenti, indicò il cortile della Filmar, la prima delle cinque aziende tessili del gruppo che invece porta il suo cognome, dove andavano e venivano i camion delle consegne di materia prima. «Se chiudo il gruppo» disse «noi magari continuiamo a respirare, ma togliamo l’aria a duecento famiglie che dipendono da noi, e poi ad altre ducento che vivono del nostro indotto».
Le figlie lo guardarono in faccia. Non c’era altro da aggiungere. Questione chiusa, la fabbrica restava aperta.
Al Papa ha confessato il proprio stupore per quella convocazione così inattesa nella piazzetta Real colma di gente, accanto a una operaia che è stata in cassa integrazione, a un giovane agricoltore che combatte l’abbandono della terra. La «colpa» è di don Claudio, un parroco della sua Caselle, che in Curia ha raccontato più volte la storia della ostinazione a non voler delocalizzare, a non tagliare qui per produrre in terre lontane, nonostante un fatturato in contrazione e nessun dividendo dal 2008. «Mio padre muratore e reduce di guerra mi ha insegnato che il pane non si nega a nessuno. Mangiamo di meno tutti, ma i miei lavoratori non li lascio a casa».
Martinetto si definisce un artigiano un po’ cresciuto, non per via dei suoi 81 anni, ma è un industriale cattolico che tiene esposta in ufficio la frase del laico Luigi Einaudi sul gusto e sull’orgoglio di veder la propria azienda prosperare, ispirare fiducia, ampliare gli impianti che costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. «Insomma» ride «sono un perfetto prodotto di sintesi».
Certo, nell’Ottocento questa era una regione anticlericale e Torino era anche demoniaca, come ha ricordato papa Francesco nel suo discorso a braccio tenuto nella basilica di Maria Ausiliatrice, poco distante dall’antica sede del Parlamento dove Cavour pronunciò il discorso del «Libera Chiesa in libero Stato» invitando il Vaticano a occuparsi solo del potere temporale.
Ma questa è anche la città dei Santi Sociali, da don Bosco fondatore dei Salesiani del quale ricorre il duecentesimo anniversario della nascita passando per don Giuseppe Cottolengo fondatore dell’istituto per bambini bisognosi dove ieri pomeriggio papa Francesco ha voluto fare una visita privata. E oggi di Ernesto Olivero, che prima di fondare quel Sermig esempio di accoglienza sostenibile di migranti e diseredati era impiegato di banca.
«Torino è sempre laica, ma lui è un gesuita» diceva ieri una signora durante l’adunata dei giovani, come a giustificare l’entusiasmo diffuso per la visita del Pontefice, accolto con una partecipazione che va oltre il dato numerico di piazza Vittorio così piena per la messa del mattino che la folla ha dovuto ripiegare su via Po e ancora oltre, fino a piazza Castello.
Le etichette, comprese quella di Papa rockstar oppure «di sinistra», servono forse a spiegare le bandiere della Fiom tra le tante che sventolavano ieri, o le magliette «Dio Che» con un Bergoglio Che Guevara che andavano a ruba nelle bancarelle. Ma non la popolarità di un Pontefice ancora «nuovo» in una grande città del Nord dove per lungo tempo il cattolicesimo è stato declinato come dottrina sociale. Le grandi adunate c’erano già state per le ultime visite di Papa Wojtyla. Quello che colpiva ieri era la presenza di laici e atei conclamati attratti dalla curiosità per un Pontefice che anche questa volta ha parlato di lavoro e solidarietà con una nettezza di parole e toni che non consentono compromessi.
Ci sono scelte che vanno fatte perché è giusto farle, come ripete di continuo il signor Filiberto con la sua faccia antica sulla quale non si legge una ruga di cinismo. E comunque alla fine di questa giornata il mistero della Sacra Sindone rimane tale, ma quello del toluolo l’abbiamo risolto, per gentile concessione. «È un solvente chimico cancerogeno usato dai cinesi per trattare il velcro, la pellicola che si attacca su se stessa. La vendono a un quarto del mio prezzo. Ho dovuto fermare le macchine, ci ho rimesso tanti soldi. Ma quella roba alla mia gente non la faccio respirare».
Marco Imarisio