Le buone regole del mercato:

di Francesco Giavazzi

Il governo ha giustamente deciso di esercitare i propri diritti di azionista quasi totalitario della Cassa depositi e prestiti e sostituirne i vertici con nuovi amministratori. Bene, ora però deve spiegare cosa vuole che essi facciano, cioè dare loro un mandato preciso. Oggi la Cassa può investire solo in imprese sane, e questo le ha consentito di opporsi alle sollecitazioni della politica che chiedeva interventi a prescindere dalla redditività economica. Ma non si capisce a cosa serva un’istituzione pubblica che può fare solo le stesse cose che farebbe un investitore privato. Se questa è la logica — e sono conscio del rischio di consentire che la Cassa finanzi aziende in difficoltà — meglio privatizzarla e usare quanto si ricava per abbattere il debito pubblico.
L’intervento diretto dello Stato nell’attività economica è giustificato solo in presenza di «fallimenti del mercato», cioè situazioni in cui il mercato, lasciato a se stesso, non riesce ad utilizzare le risorse in modo efficiente. Quindi via subito da alberghi, società di ingegneria, consorzi della carne, attività nelle quali la Cassa oggi investe attraverso un fondo «strategico». Via anche dalle start-up. Il compito dello Stato non è finanziare nuove idee. Per questo esistono investitori abbastanza bravi, almeno osservando quanto accade nella Silicon Valley. Compito dello Stato è creare le condizioni per cui costoro investano di più in Italia, ad esempio con norme che facilitino l’innovazione anziché proteggere le rendite che sono messe in pericolo da nuovi servizi e nuovi prodotti (vedi il caso Uber). A lcune innovazioni nascono dalla ricerca a scopi militari, ad esempio le nuove batterie per i telefoni cellulari, nate dall’esigenza di dare più autonomia ai soldati americani che combattevano nel deserto. Ma questa ricerca richiede un’adeguata spesa militare, non la proprietà pubblica delle imprese che producono armamenti o batterie. E la spesa militare va assegnata alle imprese migliori: se la si usa per proteggere campioni nazionali è più probabile che finisca in corruzione anziché in buona ricerca.
La Cassa ha investimenti importanti in alcune reti: elettriche, del gas, forse fra poco anche nella banda larga. Perché queste reti devono essere pubbliche? Di che cosa abbiamo paura? Che il Fondo sovrano di Singapore, che sarebbe interessato ad acquistarle, smonti i tralicci elettrici e li sposti in Asia? Lo Stato ha un compito diverso. Creare autorità di regolamentazione forti e indipendenti affinché quelle reti non si trasformino in rendite monopolistiche per chi le possiede. E far sì che le regole siano certe. Il pasticcio delle autostrade, dove lo Stato modifica le regole ex-post danneggiando i concessionari, e poi li compensa allungando le loro concessioni senza metterle a gara, è un esempio di regolamentazione incerta che crea rendite monopolistiche. Insomma, i fallimenti del mercato, laddove esistono, si correggono con buona regolamentazione, non con la proprietà pubblica.
Allora che fare della Cassa? Alcuni propongono di utilizzarla per risolvere il problema dei crediti che le banche non riescono a fasi rimborsare, almeno non per intero. In Italia sono circa 350 miliardi di euro che costituiscono un ostacolo alla concessione di nuovi prestiti. Ma anche qui la soluzione è intervenire modificando le regole, non metterli a carico dello Stato. Esistono investitori specializzati nel recupero crediti: li acquistano dalle banche e poi si occupano di riscuoterli. Il problema è che il prezzo che oggi offrono, in Italia, è stracciato. E lo è perché, diversamente da altri Paesi, in Italia escutere una garanzia richiede tempi biblici, e questo deprime il prezzo di quei crediti. Cambiamo le norme, ad esempio creando sezioni specializzate dei tribunali civili, e il problema dei crediti incagliati si risolverà da solo. Un esempio di «fallimento del mercato» è talvolta il credito alle piccole imprese quando l’imprenditore non ha sufficienti garanzie. La soluzione ovvia sarebbe cambiare la mentalità delle nostre banche, ma questo richiede tempo. Nel frattempo si può creare un fondo di garanzia pubblico — questo sì potrebbe essere finanziato dalla Cassa — che affianchi le garanzie portate dalle imprese. Un esperimento del ministero per lo Sviluppo economico ha dato buoni risultati, ma si può fare molto di più. Anche in questo caso si tratta di garanzie, non di proprietà pubblica.
Un altro esempio, in verità raro, è il caso di un’impresa che subisce uno shock temporaneo e rischia di fallire perché nessun investitore è disposto ad acquisirla. Se il problema è temporaneo, investitori interessati a «salvarla» ce ne sono perché in quel momento acquisirla costa poco. Se non se ne presentano è perché forse il problema dell’impresa è strutturale, non temporaneo. Ma talvolta succede. È il caso della Chrysler: se non fosse intervenuto il governo di Washington sarebbe fallita distruggendo conoscenze e capitale umano. Innanzitutto non bisogna dimenticare che ciò accadde nel momento peggiore della recessione più profonda degli ultimi 80 anni, quindi non è un caso frequente. Inoltre, se si volesse cambiare lo statuto della Cassa per consentirle di intervenire in aziende in difficoltà, è importante che la proprietà pubblica sia limitata nel tempo. Obama cominciò a vendere azioni della Chrysler già sei mesi dopo averle acquisite e uscì completamente dopo 30 mesi. Se non si mettono limiti di tempo vincolanti c’è il rischio che queste imprese restino pubbliche per sempre.
Infine c’è un caso interessante di fallimento «politico», non del mercato. È il caso delle liberalizzazioni. Aprire un mercato a imprese nuove e più efficienti spesso significa ridurre la rendita di chi già opera in quel mercato perché la regolamentazione, inevitabilmente, crea delle rendite. È il caso di Uber contro i taxi. Ma poiché l’opposizione all’eliminazione di una rendita è comprensibilmente fortissima, liberalizzare è spesso impossibile. Si tratta di un fallimento «politico» perché la politica dovrebbe capire che i benefici della liberalizzazione sono così grandi che meritano l’investimento necessario per compensare, almeno in parte, chi perde la propria rendita. Forse alla Cassa si potrebbe assegnare il compito di costituire un fondo di garanzia per i «rentiers». Charles Wyplosz e Jacques Delpla ( La fin des privilèges : Payer pour réformer , Parigi 2007) raccontano come nel 1868 l’imperatore del Giappone, volendo liberalizzare il Paese, emise un prestito internazionale per compensare i samurai che obbligava a rinunciare ai loro privilegi. Alcuni samurai usarono il compenso ricevuto per aprire attività industriali e talvolta divennero imprenditori di successo.
Insomma, per avviare un nuovo corso della Cassa non basta cambiare gli amministratori. Occorre chiarirsi le idee sui compiti che le si vogliono assegnare. I quali non possono consistere in fare ciò che farebbe (meglio) un investitore privato. E questo deve deciderlo la politica, non è una cosa che può essere delegata ai nuovi amministratori per bravi che siano.