La verità nel silenzio di un errore

Il palazzo a Siena di un istituto dell’Ottocento per sordomuti Due fotografie, di una raccolta, con la didascalia sbagliata Simboli che rivelano qualcosa. E aiutano a restare umani
di Valerio Aiolli
L’errore, pensavo. Gli errori. Ero lì nell’androne dell’istituto insieme alla mia amica M. Mi ci aveva portato lei, che a Siena ci vive. Non c’era nessuno, pareva un luogo mezzo abbandonato. Vetrate non esattamente pulitissime, anche qualche erbaccia di troppo nei cortili. Alle pareti, però, tutte quelle facce. Decine, centinaia di fotografie. Foto di classe, foto di gite, foto di giornate speciali. Tutte in bianco e nero. Anni Quaranta, anni Cinquanta e poi via via su, ad avvicinarci al tempo nostro. Ogni faccia uno sguardo, ogni sguardo una vita. Decine, centinaia, forse migliaia di vite colte per un istante e poi tornate nell’indistinto, e trascorse in una qualche specie di silenzio. E io lì, a guardare immerso a mia volta nel silenzio. Cercando di carpire il segreto della fascinazione che le fotografie dei volti degli sconosciuti hanno sempre prodotto su di me. Come se ci fosse un ponte, tra la mia vita e quella di qualsiasi altra persona, ma non riuscissi mai ad attraversarlo completamente. E proprio per questo ogni volta continuo a desiderare di attraversarlo. Fin quando mi sono imbattuto in quelle due didascalie. E, in qualche modo, ho intravisto una risposta.
Ma partiamo dall’inizio. Partiamo dalla pendola.
La parola “ pendola”, già di per sé, ispira un’idea di silenzio. Un battito ripetuto che segmenta non solo lo scorrere del tempo, ma anche il perdurare del silenzio. Non ci fosse silenzio, non si potrebbe percepire il battito. Nel periodo in cui nei salottini della piccola e media borghesia non poteva non esserci una pendola, quei salottini passavano la loro giornata per lo più nel silenzio, ospitando donne che cucivano, uomini che leggevano, o anche donne che leggevano e uomini che facevano solitari, o anche donne che facevano solitari e uomini che fumavano il sigaro, o anche donne che fumavano sigarette e uomini che guardavano nel vuoto ma che comunque, in ogni caso, si sarebbero rifiutati di cucire.
A Siena questa parola, “ pendola”, ha anche un altro significato, mi dice M. Un significato che però, anch’esso, ha a che fare col silenzio. Anzi forse il significato primario della lingua italiana (“sf – Orologio a pendolo per uso domestico”, Vocabolario Treccani) diventa a Siena significato secondario.
Intanto a Siena la parola “pendola” viene d’istinto da visualizzarla con l’iniziale maiuscola: Pendola. Poi viene da coniugarla al maschile: il Pendola. E subito appare alla mente, mi dice M., un palazzo. Anzi due, uno di fronte all’altro. Fatti costruire – o meglio fatti restaurare e attrezzare – nella prima metà dell’Ottocento da un uomo che di cognome faceva proprio Pendola. E di nome Tommaso. Che non era senese (era nato a Genova e poi aveva studiato a Firenze, agli Scolopi) ma che a Siena era arrivato da giovane sacerdote, e aveva celebrato la sua prima messa nella Chiesa di S. Agostino, a 23 anni. Una decina di anni dopo si era trasferito nell’ex monastero di S. Margherita, in una strada che allora si chiamava via delle Murella e oggi è diventata via Tommaso Pendola.
Tommaso Pendola nell’ex monastero di S. Margherita e nel palazzo di fronte diede vita e sviluppò il primo istituto per sordomuti dell’allora Granducato di Toscana. All’inizio ( 1828) si chiamava Istituto Reale Toscano per Sordomuti. Poi cambiò varie volte nome fino ad attestarsi, dopo la morte del suo promotore (1883), su Regio Istituto Pendola per Sordomuti in Siena. (Oggi la sua attività è stata distribuita nell’ambito delle Aziende sanitarie locali).
Non sapevo un granché della faccenda, mi sono un po’ informato. Fino alla metà del Settecento, ai sordomuti non era riservata alcuna attenzione particolare da parte di società e istituzioni. Potevano ritenersi fortunati se venivano loro riconosciuti i diritti civili, ma nessuno si occupava della loro educazione, che per forza di cose doveva partire dall’insegnare loro una qualche forma di linguaggio. Fu un abate francese, Charles- Michel de l’Èpée, a creare il primo istituto specifico, a Parigi, nel 1771, dando vita alla cosiddetta scuola francese per l’insegnamento del linguaggio, basata sostanzialmente sulla mimica. Fu invece un insegnante laico tedesco, Samuel Heinicke, ad aprire a Lipsia il primo istituto di quella che sarebbe stata denominata la scuola tedesca, fondata sul metodo orale, che prevedeva l’insegnamento, più lento e faticoso rispetto all’altro, della parola con la parola.
I primi istituti apparsi in Italia, compreso quello senese, si conformarono alla scuola francese (che poi, nel lungo periodo, avrebbe stravinto il confronto attraverso il modificarsi della mimica in linguaggio dei segni). Ma intorno al 1850 – per uno di quegli errori di cui è infarcito il cammino dell’uomo, parte integrante di una natura che sull’errore “utile” basa la propria evoluzione – la scuola tedesca pareva quella più all’avanguardia, e Tommaso Pendola – con la sua azione diretta a Siena e attraverso molti interventi su giornali e riviste nazionali – si spese con energia per il cambio di metodo nel sistema educativo. Si spese anche per denunciare l’insufficienza dei fondi elargiti, a partire dal 1861, dal nuovo Stato unitario, una volta trasformati la maggior parte degli istituti esistenti sul territorio nazionale in Opere pie.
Insomma il Pendola, inteso come uomo, fu uno dei principali esponenti del movimento per la creazione di un adeguato livello educativo per i sordomuti del nostro Paese. Quindi mi pare assolutamente giusto che a Siena gli abbiano dedicato una via: la via dove sorgeva, e ancora sorge, il Pendola, inteso come istituto.
E torniamo lì, al momento in cui, guidato dalla mia amica M., percorro i silenziosi corridoi del Pendola, e guardo le fotografie di tutti i ragazzi ( anzi solo di una piccola parte dei ragazzi e delle ragazze) che nel corso del tempo hanno trascorso lì dentro le ore i mesi e gli anni più importanti della loro formazione, hanno camminato corso saltato giocato studiato, si sono innamorati o maledetti, si sono abbracciati o presi a pugni, hanno finto di ignorare la propria menomazione o se ne sono fatti un vanto, si sono sentiti abbastanza forti per affrontare la propria debolezza, giovani per sempre o già troppo vecchi, insomma ragazzi e ragazze che come tutti hanno sputato l’anima per diventare uomini e donne, ma sempre all’interno di una loro – con una parola che oggi per altri scopi si usa molto – bolla, una bolla di sordomuti, con l’orgoglio ma forse anche con qualche smottamento di disperazione per il fatto di appartenervi non per scelta ma per qualcosa di innato – per qualcosa di errato – che li ha resi, li rende e li renderà meravigliosamente e terribilmente diversi da chi con quelle loro caratteristiche non è nato.
E mentre sono lì che guardo i loro corpi seduti sulle panche, o sulle seggioline, o in piedi composti con lo sguardo serio, o che corrono felici il giorno della campestre, a un certo punto abbasso lo sguardo e mi imbatto in quelle due didascalie.
L’errore.
Lo slittamento di senso che l’errore può provocare.
La prima didascalia sta sotto alla foto che mostra dieci bambine e mezza in fila quasi sugli attenti. Superga scure ( tranne la bambina ritratta a metà, che le ha chiare), calzini bianchi, calzoncini scuri, maglietta a maniche corte a righe orizzontali con scollo a V. Sono passate in rivista, per dir così, da una dodicesima bambina, vestita come loro, che sta toccando sul petto la bambina numero quattro (da sinistra). Non sappiamo se si tratti di una scelta, o di una conta, e non ci importa. Ciò a cui stiamo assistendo, come ci informa la didascalia, è una Lesione di ginnastica. E in effetti. Quante volte diciamo, o ci viene detto, fin dalla più tenera età, quando sbattiamo il muso (fisico o metaforico che sia) per terra, che era proprio quello che ci voleva, così impariamo la lezione? E magari noi siamo lì che sanguiniamo con i ginocchi sbucciati, o il portafoglio svuotato, o il cuore devastato. Una lezione in fondo è una piccola, spesso inutile ma a volte preziosa lesione del nostro paradigma conoscitivo, del nostro status quo. E chi può mostrarcelo con maggiore consapevolezza di dodici bambine che fin dalla nascita col concetto di lesione, e del danno che una lesione eccessiva può provocare, hanno dovuto fare i conti in modo assoluto e, per certi versi, definitivo?
La seconda fotografia è bellissima.
Nello stesso cortile della Lesione, con un cesto da pallacanestro appeso al muro di fondo, un ragazzo sta superando in volo – in stile pre-Fosbury – un filo teso tra due pali. Intorno a lui una trentina di compagni (tutti maschi questa volta: all’epoca la divisione tra i sessi era impietosa) osservano. Chi con i pantaloni lunghi e l’aria distaccata, chi in calzoncini e con una smorfia appassionata. Il ragazzo, che per saltare ha staccato su una pedana inclinata poggiata su un tappetino, sta indubbiamente superando la prova. Forse è il vincitore, forse si tratta di un record. Anche qui, non lo sappiamo. Ciò che sappiamo è che siamo in presenza, come ci informa la didascalia, di una Gara di salto in altro. E il saltatore, improvvisamente, ci appare come un astronauta, il “primo uomo” in un film di fantascienza che mescola piani temporali e concettuali. Buchi neri, pluriversi, vite parallele. Sta saltando via da quell’istituto, dal Pendola, che forse sente troppo stretto? Via dalla lesione che lo costringe a una condizione di diversità rispetto alla maggioranza delle altre persone? Via dalle proprie caratteristiche, dai propri limiti personali, che non conosceremo mai? Via dal silenzio?
L’errore, pensavo. Gli errori. In fondo cosa siamo, ciascuno di noi? Coacervi di caratteristiche uniche, di limiti individuali, di errori irrimediabili. Ecco forse cosa mi ha sempre attratto nelle foto degli sconosciuti: la messa in forma di una costellazione di errori. Diversa dalla mia ma comunicante con la mia, attraverso un ponte fragile, precario, mai finito, ogni volta da ricostruire, da restaurare, da rinfrescare. Un po’ come l’androne del Pendola, dove mi ha portato M. passeggiando per Siena.
L’errore, gli errori. Finché saremo in grado di percepire la potenziale grandezza degli errori, e di apprezzare la fertile malinconia dell’essere errati, limitati, silenziosi rispetto al cigolio di tutto ciò di enorme e di minuscolo in cui siamo immersi, avremo qualche probabilità di rimanere umani.
Firenze – la Repubblicafirenze.repubblica.it