La vendetta di Woolrich

Dalla “Finestra sul cortile” di Hitchcock alla “Sposa” di Truffaut Successi e cadute del più saccheggiato autore americano di noir Amatissimo dal grande cinema, ma costretto all’infelicità
di Giancarlo De Cataldo
Che cosa hanno in comune La finestra sul cortile di Alfred Hitchcok (1954) e La mia droga si chiama Julie
di François Truffaut (1968), oltre al fatto di essere due dei più bei film di sempre? Semplice. Derivano entrambi da racconti di Cornell Woolrich. Come La sposa in nero , dello stesso Truffaut, Martha di Fassbinder, La donna fantasma di Siodmak, L’uomo leopardo di Tourneur, e, last but not least , La pupa del gangster di Giorgio Capitani, interpretato, nientemeno, che da Sophia Loren e Marcello Mastroianni in versione vecchia mala milanese.
E, come se non bastasse, a Woolrich dobbiamo, se non l’invenzione, quanto meno la diffusione del termine “noir”, il quale altro non sarebbe che la traduzione francese, adottata dall’editore Gallimard per la famosissima collana del dopoguerra, della sua black series , la “serie in nero” degli anni Quaranta. Woolrich: «il più strano, misterioso, il più saccheggiato dal cinema e affascinante fra gli autori noir, una figura conturbante e solitaria, un maledetto che riuscì a trasfondere le sue angosce personali in libri e racconti di eccezionale immaginazione e fattura». Difficile non condividere il giudizio di uno studioso del calibro di Franco La Polla.
Cornell Woolrich nasce nel 1903 a New York. Il successo gli arriderà presto, grazie all’incontro con Hollywood, ma lui resterà un eterno infelice. Tormentato dal fantasma di un’omosessualità rifiutata – si travestiva da marinaretto per fare cruising al porto – dominato da un’ingombrante figura materna, alcolista, costretto a subire l’amputazione di una gamba per aver trascurato le cure, infine, dopo la morte della madre, autoesiliato in una stanza d’albergo. Con una biografia simile, molte delle ombre cupe, talora terrificanti, che popolano gli incubi metropolitani di C.W. acquistano un senso profondo, e nelle pagine di romanzi che solo una critica superficiale può liquidare come “di genere”, affiora l’autenticità di una voce intessuta di dolore, sregolatezza, ossessioni meticolosamente coltivate sino alla paranoia. Io conosco questo abisso, ci suggerisce Woolrich, anche nelle opere, notevolissime, firmate come William Irish, e sono disposto a trascinarvici dentro. Ma non aspettatevi che vi indichi la via d’uscita: per la semplice ragione che non sono ancora riuscito a trovarla. E forse non esiste nemmeno. Le sue storie ruotano spesso intorno a protagonisti sbandati, emarginati, carichi di un risentimento che sa di un’originaria pietas tradita, o, forse, pervertita dalla crudeltà di un universo indecifrabile.
Negli Appuntamenti in nero , all’origine di tutto c’è una bottiglia di liquore lanciata distrattamente da un aereo; nella Sposa in nero il male s’incarna nella bravata di cinque giovinastri. Ne La donna fantasma Henderson esce di casa infuriato dopo una scenata con la moglie, incontra una misteriosa dark lady, la porta a cena, a bere, a teatro, ancora a bere, e poi i due si lasciano senza che lui le abbia nemmeno chiesto «come ti chiami?». Ma, quando rientra in casa, la trova piena di poliziotti. Qualcuno ha ucciso sua moglie, e lui è senza alibi. Perché, ça va sans dire , la bella sconosciuta è introvabile.
Al punto che Henderson stesso dubita che sia mai esistita. In
Sipario nero un tizio si becca il classico cornicione in testa, si risveglia parzialmente smemorato, e quando riesce faticosamente a rintracciare la moglie scopre di essere stato lontano da casa per un anno. “Noir” metafisico, quello di Woolrich, dunque, completamente estraneo alla Storia, teatro di emozioni allo stato puro, sentimenti senza mediazione, “noir” scandito dal senso tragico della sconfitta. “Noir” profondamente melodrammatico, se è vero, come si legge nella completissima Guida alla letteratura noir curata da Walter Catalano, che la voglia di scrivere gli venne vedendo la Butterfly di Puccini. E, naturalmente, “noir” di città. Nel suo caso, New York. Il mostro tentacolare che perverte il giovane ingenuo, il demonio tentatore spesso carrozzato del sorriso ingannevole di una qualche bella seduttrice. Qui Woolrich incarna l’anima più profonda del genere nella declinazione americana, con tanto di sogno di un’innocenza rurale, da western alla John Wayne, contrapposta alle “maschere” che coprono tutte le facce traditrici dei cittadini ( Si parte alle sei). Anche se poi, a scavare, la maschera delle maschere del sogno made in Usa si sarebbe rivelata proprio quella della “frontiera”, con annessa retorica degli yankee civilizzatori e degli indiani selvaggi. Rivelazione che, però, sarebbe giunta sino a noi quando Woolrich era già caduto nel dimenticatoio, e si preparava a morire, a sessantaquattro anni, in una pensioncina della sua New York, triste solitario e finale come i suoi eroi senza radici e senza speranza.
Post scriptum: La finestra sul cortile inaugurò la Mostra del cinema di Venezia del 1954. L’illustre critico Chiarini lo giudicò un film “noioso”. Calvino ci andò giù pesante: «davano un film americano in cui un reporter scopre dalla finestra che un marito taglia a pezzi la moglie: come nelle vignette di Pio Percoco, cronista sfortunato, personaggio della Sezione dei Piccoli della Gazzetta del Popolo di quando ero bambino». Doveva essergli sfuggito qualcosa.
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