La sopravvivenza, i lutti, le ferite che non passano E l’urgenza di costruire una comunità unita Le sorprendenti memorie della “ragazza di Birkenau”

Le confidenze intime di Simone Veil
di Simonetta Fiori
Severa, austera, forse anche imperiosa. L’immagine più convenzionale di Simone Veil rimanda a una Minerva poco incline al sorriso, madre d’Europa e più volte ministra in governi moderati. Per scoprire la vera Simone bisogna trasferirsi nella sua camera da letto dove la grande dame scruta divertita l’amica Marceline mentre s’accende uno spinello. «Alla nostra età ti fai ancora le canne? », finge di stupirsi. «Meglio delle schifezze che ti fumi tu». Entrambe hanno oltrepassato i settant’anni e accettano di farsi riprendere dal cineasta David Teboul sdraiate sul letto matrimoniale. Non le si potrebbe immaginare più diverse. Maestosa nelle sue forme morbide Simone, monumento di Francia; inquieta fin dal fisico ossuto Marceline, militante dell’estrema gauche con una matassa di riccioli fulvi. Tra loro regna una complicità totale. «Sono cose da ragazze di Birkenau », ride la rossa rivolgendosi al regista che ora ci regala un ritratto intimo di Simone Veil in un sorprendente racconto per immagini e testi raccolti negli anni ( Alba a Birkenau , Guanda). Si erano conosciute il 13 aprile del 1944 nel vagone che dal campo di Drancy le conduceva ad Auschwitz- Birkenau. Simone Jacob (poi sposata Veil) aveva 16 anni, Marceline Loridan-Ivens appena più piccola. A distanza di tanto tempo i ricordi appaiono confusi, ma la mappa del lager è scolpita nella testa. «Forse il primo incontro risale al blocco 9». «Alle docce o ai tatuaggi?». «No, ai tatuaggi eravamo lontane». Insieme hanno condiviso l’imbestiamento, la paura, la fame, gli schiaffi delle SS, il corpo denudato e spiato, gli stracci infestati dai parassiti, le scarpe spaiate, le notti troppo brevi e i giorni troppo lunghi, ma quando s’incontrano preferiscono parlare delle viole del pensiero che fiorivano vicino al crematoio. Sorridono al ricordo dei fiori cresciuti nell’odore persistente delle carni bruciate. Sanno entrambe che solo chi ha conosciuto “l’altro lato degli esseri umani” è capace di trovare le parole necessarie. Noi e loro, un limite invalicabile. Neppure con la sorella maggiore Denise, imprigionata negli stessi mesi a Mauthausen ma da partigiana non perché ebrea, Simone riusciva a parlare di Auschwitz. Deportati ebrei e resistenti non condividevano la stessa storia. Con lei poteva evocare i ricordi famigliari prima del lager – i posti a tavola, la maglia che piaceva alla mamma, il villino costruito a Nizza dal papà architetto, anche l’incredulità ostinata con cui erano scivolati nella tragedia – ma non il campo di sterminio né le difficoltà del ritorno, perché quella era un’esperienza unica e irripetibile. Solo Milou avrebbe potuto capire, l’altra sorella sopravvissuta insieme a lei a Birkenau e poi morta nel 1952 in un incidente stradale. «Sono convinta che non siamo mai ridiventate normali. In apparenza abbiamo vissuto come tutti, ma le nostre reazioni intime sono rimaste diverse». Bastava poco per riprecipitare nell’inferno, «un odore particolare, una certa sensazione di freddo, anche l’immagine felice di bambini vestiti a festa, visioni belle e insieme insopportabili» perché richiamavano l’assenza di quei milioni di fratellini morti da cui Simone Veil non volle mai separarsi. «Per tanto tempo ho avuto paura di imbattermi in un’uniforme o di attraversare la frontiera. Come se avessi costantemente qualcosa da nascondere». Fino alla fine ha evitato il contatto con gli altri, perfino la fila davanti al cinema, tanto era stata intollerabile la costrizione del corpo dentro i pagliericci del campo. «Prima ero gaia, vanitosa, spesso frivola. Dopo essere tornata mi ripetevo sempre: ma davvero è importante?». Ne è scaturita una corazza, l’abito altero di cui non è più riuscita a spogliarsi. «Sono diventata più severa rispetto agli altri. E più sensibile a questioni a cui prima non davo importanza ». È una testimonianza toccante e irrituale, quella rilasciata dall’ex presidente del Parlamento Europeo, fin dal suo primo incontro con il regista Teboul che da anni progettava un documentario. «Cosa le interessa di me?», gli chiese una mattina con l’intento di scoraggiarlo. «Il suo chignon, signora». Improvvisamente Simone Veil apparve turbata. Senza saperlo Teboul aveva toccato un punto cruciale della deportazione, il fatto che lei e altre compagne del convoglio numero 71 non erano state completamente rasate, condizione che le avrebbe assicurato la salvezza. Era stata Stenia, una delle kapò più feroci, a notare il suo portamento pieno di grazia e dignità: «Sei troppo bella per morire. Ti troverò un posto dove tu possa sopravvivere». Insieme alla mamma e alla sorella, Simone fu trasferita a Bobrek, considerato dai prigionieri alla stregua di un “sanatorio”. Per anni si sarebbe tormentata su quel gesto inesplicabile e su quella donna crudele poi morta impiccata: spietata con tutti, non con lei. Con la domanda sullo chignon, Teboul aveva aperto un varco sul mondo segreto di Simone che per la prima volta si sarebbe confidata sulla sua vita, sulle ferite mai rimarginate. Sull’intreccio inestricabile tra il suo vissuto e l’impegno nelle istituzioni. Anche la costruzione europea aveva molto a che vedere con la sua dimensione esitenziale e l’urgenza della riconciliazione. «Come potevamo vivere dopo quello che era accaduto? Come potevamo vivere tutti insieme? L’Europa unita era l’unica risposta possibile, a patto di non dimenticare ». Al padre intellettuale doveva la scoperta dell’ebraismo come “condizione imprescindibile”, legata alla sapienza e alla cultura acquisite dagli ebrei nel corso di secoli. Ma ancora più del genitore, perduto nel campo lituano di Kaunas insieme al fratellino Jean, fu Yvonne il lutto perpetuo della sua vita, la madre morta di tifo a Bergen-Belsen. «In fondo non ho mai accettato la sua morte. Ogni giorno della mia vita è stata qui con me. Quando mi chiedono dove abbia trovato la forza per studiare, sposarmi, avere tre figli, fare il concorso in magistratura, ecco credo che sia stata mia madre a spingermi nel futuro». Fino alla fine, anche dopo una vita illuminata dai successi e dalla gloria, Simone continuava a chiedersi come l’avrebbe giudicata la madre. «Forse mi riterrebbe troppo poco conciliante. Lei sapeva essere ferma, ma dando prova d’una grande dolcezza. Io non ne sono capace».
L’ultimo incontro con il regista fu in una brasserie tetra di place Vauban, vicino al suo appartamento. Simone sta già molto male e per tutto il tempo resta silenziosa. I suoi occhi a mandorla s’accendono maliziosi solo quando, sotto lo sguardo incredulo del cameriere, l’immancabile Marceline nasconde dentro la borsa i cucchiaini da caffè. È come se tra loro scattasse un codice privato. L’amica racconta che nel lager i cucchiai erano preziosi come diamanti, e i deportati facevano di tutto per poter mangiare la disgustosa minestra. «Sono cose da ragazze di Birkenau », continua a giocare Marceline, come la prima volta. Simone accenna appena un sorriso. Forse sa già che anche il tempo dei ricordi sta per scadere.
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