La sfida sui gioielli dei Savoia non può riscrivere la sentenza della Storia

di Umberto Gentiloni
Una causa della famiglia Savoia contro lo Stato italiano aggiunge un nuovo tassello a una trama di scontri, incomprensioni, ripetute minacce di azioni legali. Lo scorrere del tempo non favorisce la comunicazione né sembra spingere verso comportamenti equilibrati. La pretesa della restituzione dei gioielli in dotazione alla Corona conservati dal 1946 in un caveau della Banca d’Italia sembra una sfida, la mossa di chi non riconosce pienamente interlocutori e riferimenti istituzionali.
Eppure, il presidente Mattarella nel 2017 aveva aperto le porte della comunicazione con un gesto di distensione: consentire una sepoltura dignitosa alle spoglie della consorte di Vittorio Emanuele III nel santuario di Vicoforte. Ma la disponibilità intelligente non costruisce relazioni se dall’altra parte prevale lo spirito di rivalsa, come se fosse ancora possibile rimettere in causa il giudizio storico sulla monarchia portando indietro gli orologi del tempo.
La questione dei gioielli può apparire un dettaglio marginale, o uno scontro di interpretazioni in punta di diritto. Appartengono allo Stato, che ne ha piena disponibi-lità, o sono riconducibili a una dimensione di proprietà individuale dei componenti di casa Savoia? Al di là dei risvolti giuridici di merito, l’interrogativo non può che riflettere un giudizio di fondo sulla monarchia, evitando così di favorire, anche involontariamente, la diffusione di ipotesi confuse o riletture avventurose. Il destino del tesoro della Corona entra così a far parte delle richieste di riscatto, delle volontà di rivincita, ben al di là del valore e del significato degli oggetti in questione.
In questi giorni, mentre si succedono le votazioni per il presidente della Repubblica, tornano richiami e paragoni con stagioni e figure del passato. Carlo Azeglio Ciampi ha più volte ribadito un giudizio netto sul ruolo della monarchia nella storia d’Italia e sulle pretese strumentali di eredi vicini e lontani. «Nulla di personale contro i Savoia. Li ho ricevuti al Quirinale con rispetto e attenzione, ma non possiamo confondere meriti e responsabilità, eroi e traditori. Sono fuggiti di fronte alle proprie responsabi-lità, anteponendo l’interesse della famiglia a quello del Paese».
Un dissenso manifestato in precedenza, da ministro del Tesoro del governo Prodi, nel 1997. Ne ha scritto con passione e scrupolo; la sua esperienza e quella della sua generazione sono legate in modo indissolubile alla tragedia dell’8 settembre 1943: «Non ce l’avevo con i Savoia, quando arrivò in Consiglio dei ministri la proposta di abolire la disposizione di legge che impediva loro di rientrare in Italia. Ma non potevo accettare che quell’atto diventasse una sorta di riabilitazione tardiva o comunque un giudizio affievolito sulle loro responsabilità e colpe. Il presidente Prodi riuscì a condurre in porto la discussione senza accentuare le differenze. In conclusione, disse che si poteva anche dissentire e propose di mettere ai voti per scegliere la posizione del governo. Votammo contro in cinque o sei. Una netta maggioranza si espress e a favore del rientro in Italia».
Singoli episodi che riaprono ferite antiche. Sarebbe imperdonabile non rendersene conto, accettando la superficiale leggerezza della lettura in nome del tempo trascorso che tutto cancellerebbe. Ancora le parole del presidente Ciampi come monito, allora come oggi: «Non si può scherzare con alcuni capisaldi del nostro stare insieme che reggono la comunità, anche a distanza di molti decenni. I Savoia hanno rovinato l’Italia con atti vili e vergognosi. Sono fuggiti di fronte alle proprie responsabilità e ai propri compiti, anteponendo l’interesse della famiglia a quello del Paese. La storia non si cancella e rimango convinto che gli elementi di giudizio fondanti e decisivi di una storia comune vadano preservati e tramandati correttamente a chi viene dopo».
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