La scuola, frontiera della libertà

In Francia la scuola è il cuore della laicità dello stato ma per l’islamismo radicale il solo insegnamento è la parola di Dio. Assistiamo a un capovolgimento culturale che censura i docenti e viola l’autonomia intellettuale dei nostri figli
Così come non segue il calendario gregoriano, il terrorismo islamista è estraneo pure al sentimento universale che soffre in queste settimane l’angoscia condivisa dell’assedio virale, e seguendo la sua logica unilaterale di morte riemerge dal mondo a parte in cui vive incrociando il nostro mondo per uccidere: com’è successo a Parigi, dove soltanto tre settimane dopo l’assalto con la mannaia davanti alla vecchia sede di “Charlie Hebdo”, un uomo è stato decapitato per strada nel nome di Allah.

In ogni attentato terroristico l’omicidio ritualizzato, dove tutti gli elementi diventano simbolici a cominciare dal bersaglio, dilata la sproporzione tra la vittima disarmata dall’illusione di vivere in un tempo di pace, nella grandiosa banalità innocente dello scambio civile quotidiano e dentro la protezione occidentale della civiltà democratica, e il suo carnefice, spinto ad uccidere fino a sacrificare la propria vita, secondo il codice della vendetta che fa coincidere il peccato con il reato, perché la fonte del diritto è il Corano, il libro sacro della rivelazione, e la Sunna, la tradizione.

Ma questa volta c’è qualcosa di più, su cui bisogna riflettere, oltre al coltello da cucina, il video, l’orrore della decapitazione. Prima di tutto la scena del delitto, davanti a una scuola media. Poi la vittima, un professore di storia e geografia di 47 anni, che avrebbe potuto essere il docente del diciottenne che lo ha assassinato, per poi venire ucciso dalla polizia che lo inseguiva. Quindi la motivazione: l’offesa ad Allah che doveva essere vendicata con la morte in strada era la pretesa del professore, ad inizio ottobre, di tenere una lezione di “insegnamento civico e morale” su una questione di forte attualità, cioè il dibattito, le polemiche e le reazioni violente alle vignette su Maometto pubblicate da Charlie Hebdo. Per aver affrontato in classe questo argomento, avvertendo gli alunni musulmani che potevano uscire dall’aula se lo volevano, il professor Samuel Paty era stato attaccato e minacciato da alcuni genitori dei suoi allievi. Per questo insegnamento è stato ucciso.
Vengono qui a confliggere due concezioni della società destinate a scontrarsi proprio sulla scuola, che dovrebbe essere l’istituzione civica neutra rivolta a tutti, in grado di distribuire ad ognuno in parti uguali una nozione comune del mondo in cui viviamo e del Paese che abitiamo, perché poi gli studenti sviluppino liberamente le loro attitudini, i loro sforzi e le loro scelte. Ma per l’islamismo radicale l’unico vero insegnamento è la parola di Dio arrivata direttamente dal cielo attraverso il profeta: e in quanto tale non può adattarsi alla morale comune e alle pratiche civili che la traducono nelle scuole, nei tribunali, nelle forme di vita associata. Per la tradizione francese dal 1905, invece, la scuola è il crogiolo repubblicano, il cuore della laicità dello Stato che vuole i muri delle aule spogli perché la crescita in scienza e coscienza degli alunni avvenga in libertà, e non nell’ostentazione di simboli religiosi o sotto lo sguardo di qualunque Dio. Anzi, in caso di conflitto tra la legge del Creatore e la legge delle creature prevale quest’ultima, perché tutela le libertà, tutte, ma di tutti, compreso chi non crede.

Non è un caso se la questione è scoppiata proprio in Francia, radunando tre elementi specifici: il Paese è una frontiera dell’attacco islamista alle democrazie occidentali; ha una lunga tradizione prima coloniale poi multiculturale; ha nella laicità la sua religione civile, insieme con la liberté, l’égalité, la fraternité. La scuola diventa dunque il luogo della diffusione della conoscenza, della trasmissione del sapere, ma anche del passaggio generazionale dei valori repubblicani, della condivisione dell’esperienza, della formazione di una coscienza della cittadinanza. Ma sotto questa superficie centenaria di neutralità laica per garantire la libertà culturale di crescita a ciascuno, covava la brace incandescente di un islamismo radicale irriducibile che prendeva giorno dopo giorno la forma di un vero e proprio “separatismo” deciso a non riconoscere i valori della nazione in cui vive, le sue leggi, i suoi comandamenti civili, e a organizzare nell’ombra una vera e propria contro-società antagonista: testimoniata dalla secessione scolastica, con 50 mila ragazzi che ormai consumano a domicilio un’istruzione sconosciuta, inafferrabile e alternativa.

Il nodo della questione, testimoniato dall’ultimo assassinio, è la libertà di insegnamento. La scuola media attaccata appena fuori Parigi non ha disegnato vignette, non ha irriso alla religione, non ha fatto quella satira che alcune culture non concepiscono, ma che le nostre democrazie difendono anche quando è sgradevole, perché è comunque un anticorpo della disinvoltura del potere. No. il professor Paty mostrando in classe le vignette ha invitato i ragazzi a ragionare sul fenomeno sociale, culturale, storico e politico che nasce da quella pubblicazione, e sulle reazioni violente che sono seguite. Ha cioè lavorato sull’attualità, anche se scomoda, perché ha ritenuto che fosse suo diritto e suo dovere farlo, al servizio della libertà di opinione dei cittadini-studenti, una volta acquisiti gli strumenti di conoscenza e di discussione.

Ora scopriamo che per questa lezione il professore aveva conosciuto l’inferno. E soprattutto sappiamo – lo ha documentato qui Anais Ginori da un’indagine governativa – che già due anni fa il 38 per cento dei docenti aveva ammesso di sentirsi “sfidato” (e quindi condizionato) nell’insegnamento della laicità, e la stessa quota, il 37 per cento, aveva riconosciuto di essersi autocensurato per minacce ricevute da genitori integralisti degli alunni. Pochissimi hanno denunciato queste pressioni violente sul libero esercizio del loro compito.

Questo significa che quei professori hanno gestito in solitudine il peso della paura dopo le minacce islamiste, e hanno deciso in silenzio di rivedere le loro scelte didattiche, mutilando la loro libertà di insegnare e la libertà degli studenti di esplorare la conoscenza senza tabù, senza limiti esterni, senza condizionamenti confessionali.

Pensiamo al capovolgimento culturale cui stiamo assistendo: mentre in Occidente discutiamo i limiti del “politicamente corretto” ci troviamo di fronte il “culturalmente maledetto”, che censura la scuola, viola l’autonomia intellettuale dei nostri figli, porta la paura fisica a bussare alla porta delle classi e a allungare la sua ombra – questa sì – sulle pareti nude delle aule. Mentre pratichiamo l’obiezione di coscienza, come suprema libertà, ci imbattiamo in questa obbligazione d’obbedienza, che è esattamente il suo contrario.

Si capisce dunque che Macron abbia deciso di reagire con un piano che prevede dal 2021 l’istruzione pubblica obbligatoria per tutti a partire dai tre anni, limitando solo a motivi di salute l’istruzione a domicilio, per sottrarre i bambini dalle costrizioni dell’ambiente che li circonda. Bloccando intanto l’arrivo di imam dalla Turchia, dal Marocco e dall’Algeria per promuovere imam nazionali, di scuola e formazione francese, alla ricerca difficile di un “Islam dei Lumi” con cui l’Eliseo vorrebbe impostare una relazione repubblicana trasparente, ricordando i milioni di musulmani che vivono nella Repubblica come cittadini consapevoli delle leggi nazionali e della morale comune.

Ma com’è evidente la questione non riguarda solo la Francia, che semplicemente la sperimenta in anticipo, anche per noi. Con la libertà d’insegnamento è in gioco la libertà d’espressione, l’autonomia dello scambio culturale quotidiano, l’indipendenza intellettuale dei nostri figli: ciò che dà sostanza di significato alla democrazia. Tutto il resto è già sottomissione, se lasciamo soli i professori a fronteggiare la censura in silenzio, portando a scuola l’omertà di Stato.

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