La sconfitta di Macron l’africano

Il presidente francese vuole coinvolgere l’Italia nelle sue disavventure nella regione del Sahel

In piena campagna elettorale (in Francia si vota per la presidenza della Repubblica il 10 aprile prossimo), Macron subisce una serie di rovesci sul terreno della politica estera, ambito nel quale ha cercato di strumentalizzare, a fini elettorali, il suo ruolo di mediatore su diversi dossier internazionali. Dal fallimento sull’Iran, al vertice di Biarritz nel 2019, a quello in Libano, proseguendo con l’umiliazione sull’affare dei sottomarini all’Australia, per finire con l’affronto diplomatico subito dal presidente russo. Non solo è stato preso in giro da Putin, nella sua opera di mediazione sull’Ucraina – una vera e propria Beresina diplomatica (con riferimento alla sconfitta dell’armata napoleonica nel 1812) –, ma ha anche conosciuto una severa disfatta in Mali, Paese dal quale ha dovuto dare l’ordine alle truppe francesi di ritirarsi, cercando, nel contempo, di evitare un replay della fuga disastrosa degli occidentali da Kabul. Nella vicenda sono coinvolte anche le forze armate di altri Paesi europei, tra le quali quelle italiane.

La sconfitta in Mali è anche il fallimento del primo intervento di una forza di “Difesa europea”, progetto sponsorizzato dal presidente francese, sia pure nell’ambito della Nato che definì, peraltro, “in stato di morte cerebrale” nel non lontano 2019. La partecipazione italiana a questo intervento militare, ribadita dal Trattato del Quirinale (vedi qui e qui), vuole anche porre parziale rimedio al contenzioso libico tra i due Paesi, sorto in seguito all’intervento unilaterale della Francia, che determinò la caduta di Gheddafi e il caos libico attuale, nonché una profonda lesione agli interessi italiani in quel Paese.

Gli scontri tra tuareg, milizie islamiste, esercito maliano e la Légion traggono origine dalla crisi libica, in seguito alla quale, la regione del Sahel si è andata configurando, sempre più, come frontiera meridionale dell’Europa. Nell’area si sono aggiunti, negli anni, ulteriori fattori di instabilità derivanti dai cambiamenti climatici, dall’espansione demografica, dalla volatilità economica globale e dall’avanzata dell’estremismo jihadista. La Francia, e altri Stati europei, intervengono nei cinque Stati del Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad) per diversi motivi considerati strategici: contrastare l’avanzata dei gruppi jihadisti, in particolare verso i Paesi dell’Africa occidentale (Benin, Costa d’avorio, Ghana e Togo), con il rischio di un accesso ai traffici del Golfo di Guinea; bloccare i flussi migratori dall’Africa subsahariana; controllare le risorse minerarie e le materie prime; salvaguardare i loro investimenti e impedire che altre potenze si introducano in quell’area.

Il Mali – vasto più di quattro volte l’Italia – è un Paese in larga misura desertico ma contenente, nel sottosuolo, petrolio, gas, litio, oro, argento, diamanti e uranio. Con la particolarità che la maggior parte delle sue risorse sono concentrate nel nord del Paese e nel sudest (la regione “delle tre frontiere”, quelle con il Niger e il Burkina Faso), cioè proprio nei territori in cui si sono insediati i gruppi terroristici. Importanti giacimenti di uranio sono sfruttati dalla società francese Orano (ex-Areva) anche nel vicino Niger. Altre potenze sono ovviamente interessate a impiantarsi nell’area, quali Turchia, Israele, Russia e, non ultima, la Cina. Il Mali è uno dei Paesi più poveri al mondo: al 173° posto su 177 nella graduatoria mondiale dell’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite,mentre la speranza di vita alla nascita è di soli 53 anni, il tasso di alfabetizzazione non supera il 24%, e il reddito effettivo pro capite raggiunge a fatica i 1050 dollari annui.

Ma per capire le ragioni della sconfitta di Macron, e i pericoli che ne possono scaturire anche per il nostro Paese, occorre ricostruire brevemente il contesto storico e politico dell’intervento militare francese e, in seguito, europeo.

Serval, Barkhane, Takuba: tre interventi militari

Tutto nasce dalla caduta di Gheddafi in Libia, nell’ottobre 2011, e dalla sconfitta dell’Isis in Siria-Iraq nel 2017. Alcuni miliziani tuareg, ingaggiati nelle milizie anti-Gheddafi, si riversarono armati (e disoccupati) nei loro territori d’origine, rivitalizzando una guerriglia autonomistica nel nord del Mali e integrandosi nel Gsim, affiliato ad Al Qa’ida; mentre i militanti dell’Isis trovarono, con facilità, reclute per costituire l’esercito dello Stato islamico del grande Sahara (Eigs) soprattutto tra i nomadi “peul”, allevatori in conflitto perenne con i coltivatori “dogon” nelle aree centrali del Paese.

Ma prima di diventare dei “matti di dio”, i giovani combattenti islamisti sono insorti contro lo Stato e le autorità pubbliche corrotte e incapaci di garantire loro la possibilità di una vita dignitosa. I gruppi jihadisti hanno prosperato a causa della profonda crisi del mondo rurale saheliano. Oltre che dare la caccia ai terroristi, sarebbe altrettanto doveroso, per esempio, delimitare le piste per il bestiame, onde evitare i confronti armati tra le comunità di allevatori e di agricoltori. Invece è stata incoraggiata la formazione di milizie comunitarie, in particolare “dogon”, esacerbando i conflitti, e consentendo ai gruppi terroristici di reclutare tra i giovani “peul”, permettendo così, nel 2015, la formazione della “Katiba (‘battaglione’ in arabo) Massina” nelle zone centrali del Mali.

Questi gruppi hanno imposto, villaggio dopo villaggio, la trasformazione della scuola pubblica in scuola coranica, l’adozione del velo per le donne, un’amministrazione della giustizia basata sulla sharia. Molti abitanti delle zone rurali si sono opposti, mentre altri si sono adeguati di fronte a uno Stato maliano assente e lontano. Misure che sono conseguenti a un’islamizzazione crescente della società che ha coinvolto parte delle élite e della stessa gioventù della capitale, Bamako.

Errori militari, e soprattutto politici, si sono cumulati e intrecciati. Controllare il Sahel, un territorio grande come l’Europa, con cinquemila uomini armati non è concepibile, specie in un conflitto asimmetrico. Si tratta di una realtà politicamente ed etnicamente frammentaria e complessa, che non consente un approccio semplicistico di stampo neocoloniale.

In un primo momento, l’operazione Serval, voluta da Hollande nel gennaio 2013, è stata un successo dell’esercito francese, che sbaragliò i jihadisti che puntavano sulla capitale. Seimila militari bloccarono la colonna dei miliziani islamisti, ripresero possesso dell’aeroporto di Goa e risalirono nel nord fino a Kidal (seicento jihadisti uccisi, un centinaio fatti prigionieri). Dal punto di vista militare, la questione sembrò risolta. La popolazione del Mali applaudì entusiasta, i Paesi del Sahel si mobilitarono (in particolare, il potente esercito ciadiano inviò 2.500 uomini), l’Unione europea costituì una missione militare (Eutm), l’Onu stessa creò, nell’aprile di quell’anno, una missione per il mantenimento della pace, Munisma (12.000 uomini). Quella dell’Onu è tuttora una missione di carattere “difensivo”, che deve spesso assistere inerte ad atrocità, mentre i suoi membri finiscono per essere, a loro volta, vittime degli assalti terroristici (dal 2013 a oggi più di 260 sono stati infatti uccisi). Con la prevista partenza dell’Armée dal Paese la missione Onu rimarrà senza copertura aerea.

Nel 2014 la missione viene sostituta da Barkhane (Francia più i cinque Paesi del Sahel). Lo stesso anno, la Libia precipita nella guerra civile, con conseguenze gravi anche per i Paesi dell’area. Il 2015 è invece l’anno clou degli attentati dell’Isis in Europa, in particolare in Francia. La lotta al terrorismo internazionale si intensifica. Viene firmato, sempre nel 2015, un accordo tra il governo maliano dell’epoca e una parte dei gruppi tuareg del nord. Questo “accordo di Algeri” viene visto con sospetto dalla popolazione del Mali, che teme che la Francia voglia ottenere una sorta di spartizione del Paese, con la città di Kidal lasciata in gestione ai ribelli tuareg.

L’esercito francese collaborò nel 2013 e nel 2014 con elementi del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mlna) per combattere i jihadisti, provocando la collera di molti maliani che consideravano tale movimento composto da “terroristi” e sospettavano che i francesi volessero staccare il nord, ricco di materie prime, dal resto del Paese. Il Mlna si costituì con miliziani provenienti con le loro armi dalla Libia, in gran parte combattenti anti-Gheddafi, con volontari di diverse etnie (tuareg, songhai, peul e mauri), oltre che con ex ufficiali e soldati che avevano disertato dall’esercito del Mali. Nel maggio 2012, una parte dell’etnia tuareg si staccava dal Movimento e si alleava con alcune frazioni fondamentaliste, che aderirono al Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, che poi fu denominato Al-Qa’ida del Maghreb islamico. Dal 2016, la Francia abbandonava l’alleanza con il Mlna, lasciando le popolazioni alla mercé dei jihadisti e provocando il risentimento di una parte delle tribù tuareg.

Gli eserciti del Sahel, che dovrebbero contribuire all’intervento nel Mali insieme a quello francese, sono strutturalmente deboli e regolarmente accusati di crimini di guerra. Nel complesso, queste truppe hanno una scarsa forza aerea (pochi elicotteri e qualche aereo da ricognizione); la loro formazione e i loro equipaggiamenti lasciano a desiderare; i soldati sono malpagati e devono, in alcuni casi, provvedere ai propri rifornimenti alimentari a spese delle popolazioni.

Nel 2019, cinque Paesi europei – Belgio, Danimarca, Estonia, Olanda e Portogallo – si aggregano alla Francia. Nasce Takuba (“spada” in lingua tuareg). L’azione militare viene concentrata nella regione delle “tre frontiere”, dove prevale la presenza jihadista affiliata all’Isis, ben più pericolosa della ribellione tuareg appoggiata da Al-Qa’ida.

Parigi si dichiarava soddisfatta dei risultati ottenuti sul campo, tra i quali l’uccisione di più di duemila jihadisti e di capi locali dell’Isis e di Al-Qa’ida. Nel 2020, secondo un rapporto redatto da Ong internazionali, sono stati più numerosi i civili o i sospetti non armati uccisi dalle forze di difesa e sicurezza che avrebbero dovuto proteggerli, che quelli assassinati da gruppi jihadisti. Un terzo circa delle uccisioni sono poi da attribuire a delle milizie comunitarie di “autodifesa”. Procedendo con gli elicotteri e con i droni, si moltiplicarono anche i “danni collaterali” prodotti dall’aviazione francese, così come a Bounti, una località nel centro del Mali, dove il 3 gennaio 2021 vennero uccise ventidue persone che partecipavano a un banchetto nuziale scambiate per terroristi. Alla fine del novembre 2021, i militari francesi uccisero tre africani che partecipavano a manifestazioni pacifiche, e che avevano bloccato, prima in Burkina Faso e poi in Niger, un convoglio militare francese di un centinaio di veicoli che si recava alla base di Goa nel nord del Mali.

Insomma, una strategia di intervento unicamente bellica che ha lasciato in rovina il Paese, senza capire che l’opzione militare offusca le cause profonde e le dinamiche complesse che hanno condotto i giovani saheliani ad aderire ai movimenti jihadisti. In questi Paesi, tutti gli elementi del patto neocoloniale persistono, come la lingua ufficiale, la servitù monetaria con il franco Cfa, il saccheggio delle risorse, l’intromissione nella gestione delle istituzioni locali. Ora la Francia si ritira dichiarando che in Mali non ci sarebbero più “le condizioni politiche, operative e legali per continuare efficacemente l’impegno militare nella lotta al terrorismo”. In ogni caso, annuncia di voler mantenere una presenza militare nei Paesi vicini del Sahel e dell’Africa occidentale.

Una sconfitta politica annunciata

Il contesto politico è quello più problematico: l’intervento francese non è riuscito a fermare il flusso di traffici verso la Libia, non si è realizzato un vero accordo di pace tra nord e sud del Mali, non ha ottenuto un fattivo appoggio dell’Algeria, con la quale Macron è peraltro entrato in conflitto diplomatico aperto, e, soprattutto, non ha risolto i problemi di gestione dei Paesi del Sahel. Lo testimoniano i numerosi golpe che si sono succeduti, spesso con l’appoggio entusiasta delle popolazioni, e che hanno rovesciato presidenti vicini a Parigi.

D’altronde la Francia nasconde, a malapena, la sua mentalità da ex potenza coloniale. Dopo un incidente di elicotteri, nel novembre 2019, che provocò la morte di tredici militari francesi, l’Eliseo convocò a Parigi i leader dei Paesi saheliani, umiliando i capi di Stato africani e annunciando loro l’incremento degli effettivi militari dell’operazione Barkhane. Quella francese è un’indignazione selettiva: il governo parigino appoggia senza battere ciglio presidenti che si fanno rieleggere per un terzo o quarto mandato, a dispetto delle costituzioni dei loro Paesi, come in Costa d’avorio, in Camerun, in Togo, nel Gabon, oppure in Guinea o in Senegal.

Quelli dei militari del Mali non sono, peraltro, gli unici colpi di Stato nella regione. Nel settembre del 2021 c’è stato un golpe in Guinea e, nel gennaio 2022, i militari del Burkina Faso hanno deposto un altro presidente filofrancese, Roch Kaboré. Ultimamente, Macron ha dato il suo avallo alla presa del potere da parte di Mahamat Idriss, andando di persona alla cerimonia della sua investitura a N’Djamena, capitale del Ciad. Anche in questo caso, un capo militare, il quale, in violazione della costituzione, è succeduto al padre morto in circostanze mai chiarite nell’aprile del 2021.

Non c’è dunque da meravigliarsi se, in questi ultimi anni, i giovani siano scesi nelle piazze di Bamako, Ouagadougou, Niamey, N’Djamena e anche di Dakar, per denunciare gli autocrati locali, in alcuni casi inneggiando ai militari golpisti e chiedendo alla Francia di andarsene bruciando le bandiere tricolori.

Nell’agosto del 2020, un putsch ha rovesciato il presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita sostenuto dall’Eliseo, un presidente che era stato eletto democraticamente ma rivelatosi un vero e proprio cleptomane. Le relazioni tra Parigi e Bamako si deteriorano, e, nel maggio 2021, un golpe nel golpe porta al potere una nuova giunta militare orientata verso un’alleanza con la Russia, con l’arrivo, dal dicembre 2021, di sempre più numerosi istruttori della società privata Wagner (vedi qui).

Inoltre, la giunta preconizza l’apertura di un dialogo con alcuni gruppi jihadisti, in particolare con i gruppi vicini ad Al-Qa’ida e ai tuareg. Contatti e trattative che il governo francese ha condannato a più riprese, accusando i golpisti e il loro leader, Assimi Goita, di “trascurare la lotta contro gli estremisti islamici”. Mentre i militari maliani hanno previsto una transizione di cinque anni, prima di richiamare la popolazione alle urne, Parigi definisce la giunta militare “illegittima”, suscitando l’ira della popolazione scesa in piazza per sostenerla.

Il colonnello Assimi Goita, l’uomo forte di Bamako, ha espulso dal Paese l’ambasciatore francese, invitando l’Eliseo a ritirare le sue forze armate al più presto. In riposta al golpe, e sotto pressione della Francia, la Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest) e l’Uemao (la loro unione monetaria) hanno inflitto sanzioni economiche e finanziarie al Mali, peggiorando le già precarie condizioni economiche e sociali della popolazione.

Macron vuole coinvolgere l’Unione europea e l’Italia

Il presidente francese ha chiesto l’intervento dell’Unione europea in Mali per diversi motivi, oltre che per condividerne i costi materiali, umani e politici. Uno di questi è strategico: dimostrare che l’Unione può condurre importanti missioni all’estero senza gli Stati Uniti.

L’Unione europea, per contrastare l’influenza cinese nel continente nero e il peso degli investimenti collegati alla “nuova via della seta”, ha deciso un piano pluriennale d’investimenti di 150 miliardi di euro, che ha annunciato nell’incontro tra l’Unione africana a Bruxelles, il 17 e 18 febbraio 2022. E, prima ancora, c’è stato il Migration Compact proposto dal governo italiano ai partner europei per il controllo congiunto dei confini africani. In ogni caso, Germania e Spagna, pur dichiarandosi politicamente favorevoli, hanno fatto sapere alla Francia che non avrebbero inviato truppe.

La missione Takuba è stata invece considerata dai governi italiani di particolare importanza al fine di bloccare i flussi migratori dall’Africa sub-sahariana – in continuità con la politica di Marco Minniti, ex ministro dell’Interno, che fece accordi con le tribù libiche del Fezzan. E anche per altre due ragioni di fondo: difendere i propri commerci (in primis le esportazioni delle sue industrie belliche) e i propri investimenti in Africa occidentale (negli ultimi quattro anni, l’Italia è stato il primo investitore europeo in Africa), e ricomporre il dissidio con la Francia per salvaguardare gli interessi in Libia.

Approvando il “decreto missioni”, nel luglio 2020, il parlamento italiano ha deciso, senza una grande discussione tra i partiti e nell’indifferenza dell’opinione pubblica, l’invio di un contingente militare nel Sahel, una regione che sta assumendo un peso geopolitico sempre maggiore. Il nostro impegno militare in Mali prevede l’utilizzo di duecento soldati delle forze speciali, venti mezzi terrestri e otto elicotteri, stanziati nella base di Ansongo, sperduta località del nord del Mali. Il loro raggio d’azione è stato individuato nel feudo jihadista del Liptako-Gourma, la cosiddetta zona “delle tre frontiere”, a cavallo fra Mali, Niger e Burkina Faso, con un onere finanziario pari a sedici milioni di euro per il solo 2020. In parallelo con il ritiro delle truppe francesi, i nostri militari si riposizioneranno in Niger, dove altri italiani sono già presenti.

Come si apprende dal sito “congedatifolgore.com”, Misin (Missione militare di addestramento alle forze del Niger) prevede una presenza militare italiana di 295 uomini stanziati nella base aerea costruita dai francesi presso l’aeroporto della capitale del Niger, Niamey, scalo utilizzato anche da Africom, il comando statunitense per le operazioni nel continente.

La militarizzazione dell’intera regione, però, non ha ancora portato a una riduzione del fenomeno jihadista. Anzi, secondo Mauro Armanino, un prete che vive da diversi anni in Niger, citato da “Internazionale”: “Le forze in campo si sono via via moltiplicate in modo proporzionale ai soldi, ai militari e ai gruppi armati. Si prospetta una guerra di lunga durata che, oltre a migliaia di morti, sta producendo centinaia di migliaia di sfollati, rifugiati e intere zone abbandonate dallo Stato. Il pan-militarismo continua a proporsi come profezia che si (auto)avvera: chi di spada (“takuba”, NdR) ferisce, di spada perisce”.

 

 

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