la scommessa del Pd: trasformare il patto in colizione politica

La scommessa del Pd: trasformare il patto in coalizione politica

Il segretario dem molto incerto sull’esito del confronto. Nel partito cresce l’idea che la riforma di Costituzione e legge elettorale crei un’alleanza stabile. Bettini: “Con tre poli l’alternanza è impossibile”
ROMA – Emilia, Umbria, Calabria, Toscana. Come un rosario, da giorni Dario Franceschini va ripetendo i nomi delle regioni in cui si voterà tra la fine dell’anno e l’inizio del 2020. Regioni dove il Pd rischia di franare ma dove il quadro può cambiare radicalmente se parte davvero il governo che tiene insieme i dem e i grillini e diventa un’alleanza anche elettorale. Perché nello schema di Franceschini, ma anche nei ragionamenti di Nicola Zingaretti l’esecutivo giallo-rosso segnerebbe una “svolta” (parola non a caso usata dal segretario dopo le consultazioni) della politica italiana. Una nuova coalizione, un diverso centrosinistra, un sistema dell’alternanza impostato sul duello tra la destra sovranista e l’ircocervo allo stato embrionale che è oggi l’intesa Pd-M5s.

Ecco perché Zingaretti rifiuta l’idea del contratto, buono solo a tenere unite forze che rimangono diverse e poco duraturo. Ecco perché vuole partire da un programma comune e ha accolto positivamente i dieci punti presentati da Luigi Di Maio. Ecco perché ha messo i tre paletti (cancellazione dei decreti sicurezza, difesa della centralità del Parlamento e manovra economica impostata sull’equità sociale) che sono le condizioni identitarie di sinistra che il Pd porta in dote alla prospettiva di un cambio epocale del sistema. Per Franceschini questa strada è segnata nel destino, per Zingaretti è un’ipotesi da verificare, per Goffredo Bettini, da sempre vicinissimo al leader dem, “è la soluzione del futuro, altrimenti l’alternanza, con tre poli, resta irraggiungibile”. In gioco dunque c’è qualcosa di più ampio, più visionario di un esecutivo che ancora non si sa se prenderà vita. Ma se succede il grosso del Partito democratico, non escluso Matteo Renzi, è pronto a fare quei passi che vanno oltre la semplice maggioranza numerica in Parlamento. Diventando invece cambio di sistema, ridisegnando lo scenario, scrivendo insieme la riforma della Costituzione e la legge elettorale, creando un innesto tra due forze politiche che si sono aspramente combattute ma si sono anche divise in questi anni un elettorato per molti versi comune.

Nella lunga giornata trascorsa al Nazareno si è parlato anche di questo, ma Zingaretti è stato soprattutto attento alle mosse dei 5 stelle nell’immediato. È pronto a trattare, ma da Di Maio vuole gesti pubblici. Ancora prima di un incontro a quattr’occhi (che ci sarà nelle prossime ore, probabilmente domani) il segretario dem chiede ai grillini di rivolgere al Pd un appello esplicito a lavorare insieme, a superare le distanze. In pratica, un atto di rottura definitivo con la Lega, alleata fino all’altro ieri. È il minimo sindacale per far digerire ai militanti di entrambe le parti la nuova rotta.

Il segno non è ancora arrivato, non bastano i whatsapp o le telefonate di Davide Casaleggio. Questa impasse ieri ha ringalluzzito quella parte del Pd che non crede all’accordo. Paolo Gentiloni, in primis. L’ex premier resta contrario a un’alleanza con i grillini. Ripete che un centrosinistra compatto può giocarsi la carta delle elezioni, non condivide l’idea di intestarsi una legge di bilancio che sarà dura e in salita, nutre una diffidenza antropologica nei confronti dei 5 stelle. I renziani sono convinti che questi dubbi abbiano fatto breccia nella strategia zingarettiana, che siano alla base delle tre condizioni non negoziabili uscite ieri mattina e che sono sembrate la formula per far schiantare la trattativa. Si è subito materializzato, nel momento delicatissimo delle consultazioni, lo spettro dei due Pd. Non è così però. Alzare l’asticella, secondo il segretario, serve a rafforzare il tentativo di accordo, a renderlo più concreto e infine a immaginare collaborazioni elettorali future, come in molti si spingono a fare.

Queste sono le preoccupazioni di Zingaretti nelle ultime ore. Non sembra al contrario un grande problema il nome del premier. “Penso che persone di area, vicine sia a noi che ai grillini, non manchino”, dice il leader del Pd a chi gli chiede lumi su Palazzo Chigi. Quello che viene prima invece è ancora da costruire.