La rivolta delle mamme “Pronte a occupare le strade e mettere le tende in piazza”.

GIAMPAOLO VISETTI

«Giacomo 189 ng/ml Pfoa: state avvelenando mio figlio». Nel cuore tossico del Nordest la t-shirt bianca dell’autunno politico più caldo dagli Anni Settanta rivela l’incubo dell’ex «Cina italiana», che da Vicenza dilaga ora marcescente verso Verona, Padova e Rovigo: continuare a «farsi uccidere per fare soldi». Le «magliette autofinanziate» indicano il livello venefico shock scoperto negli adolescenti e sono migliaia. Su ognuna un nome nero e un numero rosso: la percentuale di sostanze chimiche concentrate nel sangue. A indossarle sopra la camicia, al lavoro e al supermercato, in chiesa e in palestra, sono le «Mamme no-Pfas»: in rivolta contro la fabbrica di Trissino, ma pure contro «i politici che parlano e non fanno», contro «i giudici che indagano ma non fermano i delinquenti». Tocca infine a loro, che hanno visto ammalarsi e morire padri, mariti e fratelli, lottare adesso almeno per la vita dei figli. «Siamo pronte a occupare le strade — dice la portavoce Stefania Polato — e a piantare le tende nelle piazze. Pronte a fare la guerra: qualcuno deve dire subito cosa ci aspetta e cosa si sta facendo per scongiurare una strage. E la nostra acqua non deve più contenere nemmeno un nanogrammo di veleno». Questa, ai piedi dei Colli Berici, era una terra benedetta. Vigne e stalle, mais e pollai. Poi, tra i torrenti Chiampo, Agno e Fratta Garzone sono arrivate le concerie e le fabbriche, i cementifici e le industrie dei farmaci. Si è messa a «fare schéi» anche la Miteni, fondata dal conte Marzotto e convertita alla chimica da Mitsubishi ed Eni: da decenni, prima di finire nella nebbia dei fondi lussemburgo-svizzeri, sgancia impunemente le sue bombe tossiche nelle falde e nei campi. Il prezzo del boom. «Avevamo il cibo più sano del mondo — dice Giovanna Dal Lago, mamma di cinque ragazzi a Lonigo — ora vaghiamo in un deserto sporco».

Sono anni che le madri vicentine denunciano e combattono. In tre decenni almeno 1.300 morti «non naturali» oltre la media nazionale. Da quando sanno che pure bambini e ragazzi ancora oggi rischiano la vita, a «produzione nociva» ufficialmente sospesa, la lotta divampa però dai 21 Comuni della «zona rossa» ai 79 dei 180 chilometri quadrati dell’area più impresentabile della Pianura Padana. Trissino e la Miteni ormai sono territori perduti e invalicabili, mentalmente isolati tra gli argini che rigurgitano scorie. Tutto attorno, nei paesi e a Vicenza, le persone sopravvivono invece in un incubo. «Deve essere chiaro — dice Michela Piccoli, infermiera di Lonigo, madre di una bambina di 14 anni che ha nel sangue un livello di Pfas venti volte più alto dei limiti — che la situazione qui è questa. L’acqua e la terra sono avvelenate. Non possiamo bere e lavarci aprendo il rubinetto. Non possiamo mangiare ortaggi, latte, uova e carne prodotti dai nostri contadini. Nonostante ciò, il nostro sangue è malato. Dovremmo stare ferme e aspettare ancora?».
I rimpalli di responsabilità qui non interessano più. La realtà è già oltre le inchieste e le promesse, le leggi e le sentenze. A Montebello la gente ha tappato le fontane. A Montagnana gli alimentari espongono cartelli con la scritta «generi prodotti e certificati no-Pfas e no-km 0». A Cologna Veneta, nel Veronese, i vignaioli hanno spento l’irrigazione a goccia. Vicino a Lonigo una stalla ha chiuso il pozzo che pescava l’acqua a 104 metri di profondità. «Non abbiamo alternativa — dice Andrea Canola —, dobbiamo salvare almeno le bestie. Facciamo debiti per le autobotti». La paura, dopo i test che confermano l’intossicazione da Pfas e Pfoa negli adolescenti, è tale che nelle case si rinuncia a lavatrici, lavapiatti e docce. «Andavo in piscina — dice Beatrice, 16 anni di Creazzo — poi mi hanno trovato i Pfas a 172 nanogrammi contro un massimo tollerabile di 8. Sono fortunata, mi sento bene, i miei amici invece no, stanno male». Come a migliaia di coetanei, la Regione le ha proposto la plasmaferesi, il lavaggio del sangue. «Ma i medici sono divisi, è una cura mai sperimentata — dice — e non so cosa fare».
Il più drammatico disastro ambientale nella storia del Veneto imprigiona così una delle aree più ricche e più inquinate d’Europa. «Per questo — dice Monica Paparella, mamma no-Pfas di Brendola — per noi il limite ai veleni deve essere zero. Non zero virgola. E non ci fermeremo finché non avremo in mano un pezzo di carta a dimostrare che l’impegno di cambiare l’acqua e la terra che imprenditori noti hanno distrutto è finanziato e avviato ». Costerà almeno 200 milioni di euro, ci vorranno oltre vent’anni. Chi può si trasferisce. I «condannati Miteni», costretti a restare, controllano che almeno asili, scuole e ospedali non distribuiscano «acqua e cibo del posto ». Fiducia zero. «Abbiamo incontrato tutti — dice Antonella Sartori, del comitato “Acqua bene comune” di Trissino — dal presidente Zaia al vescovo Pizziol. Il risultato sono quattro anni di parole. Adesso chiediamo al premier Paolo Gentiloni di venire a vedere di persona come è ridotta l’Italia che si porta ad esempio d’eccellenza». Si gira e ferma il cane che vorrebbe leccare il rivo giallo di una roggia.
Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/