di Luca Monaco
ROMA — I ristoratori romani accanto ai colleghi arrivati all’alba da Napoli, Firenze, Palermo. C’è anche un macellaio sotto le finestre di Montecitorio. Soffiano nei fischietti. «Zero aiuti dallo Stato, Castelli chieda scusa », recitano i cartelli agitati nell’aria bollente da 150 piccoli imprenditori del “Movimento imprese ospitalità” (Mio): una rete nata sui social nei giorni della quarantena e che il 16 giugno scorso è entrata in Confindustria.
L’uscita del viceministro all’Economia M5s Laura Castelli («se i ristoratori non hanno i clienti vanno aiutati a fare un’altra attività», aveva detto) non è piaciuta ai 300mila esercenti del Paese, la metà sono ristoratori costretti a fare i conti con l’effetto pandemia. «I turisti stranieri non ci sono, gli italiani lavorano da casa, i matrimoni sono stati annullati: non è vero, come dice Castelli, che la domanda è cambiata — sottolinea il presidente della Fiepet Confesercenti Giancarlo Banchieri — le persone, per varie ragioni, compreso il timore del contagio, non possono andare al ristorante, ma vorrebbero farlo».
Il risultato è: attività chiuse. Come “La nicchia”, il bistrot di cucina italiana aperto quattro anni fa da Giacomo Vannicelli nel quartiere di Santa Maria Novella, a Firenze. «Abbiamo una clientela di livello, proponiamo materie prime di qualità e per tanti mesi siamo stati in vetta alla classifica di Tripadvisor — racconta il titolare — il covid ha distrutto tutto. Finché non torneranno i turisti resterò chiuso».
Una scelta obbligata. «Non abbiamo deciso noi questa situazione — dice il presidente del Mio Paolo Bianchini — dal Governo vogliamo risposte, non insulti. Il nostro comparto rappresenta un milione e 200mila addetti, produce il 13 per cento del Pil con quasi 90 miliardi di fatturato: è un motore dell’economia italiana, non possiamo continuare a essere invisibili». Banchieri invoca «la decontribuzione del costo del lavoro e una “tax credit” sugli affitti — ripete — abbiamo chiesto un incontro al viceministro: 30mila locali non hanno ancora riaperto e altri 100mila rischiano di chiudere all’inizio dell’anno prossimo. Servono misure per superare questa fase, la pandemia finirà e i turisti torneranno».
Lo sperano tutti. «Intanto ci indebitiamo con le banche — sospira Rachele Guenot, 46enne proprietaria di “Casa Coppelle”, il ristorante aperto dal 2009 nell’omonima piazza a quattro passi dal Senato — ho 18 dipendenti, il 75 per cento della nostra clientela è internazionale, ora non c’è più». Guenot ha rimodulato il menu, «abbassando i prezzi attrarre i romani ma non è sufficiente».
Soffre anche Roberta Pepi, 40enne titolare due ristoranti nel centro storico di Roma. «Uno è chiuso. Ho sei dipendenti a casa, la cassa integrazione è scaduta il 14 luglio e non sappiamo se verrà prorogata». Annuisce Annibale Mastroddi, il 78enne titolare dell’Antica macelleria aperta dal 1888 in via di Ripetta che rifornisce diversi ristoranti romani: «Vorrebbero farci chiudere, non ci riusciranno».