Il pensiero che, da sempre, mi guida nella vita è di Eraclito: «Il destino dell’uomo è il suo carattere». Il pensiero che mi aiuta ad affrontare le intemperie di questi anni deboli, litigiosi e tumultuosi è di Zygmunt Bauman, sociologo, filosofo, geniale intellettuale polacco, che ci ha raccontato e spiegato la «società liquida». Ho avuto la fortuna di incontrarlo più volte prima che ci lasciasse, grazie agli annuali convegni internazionali della Comunità di Sant’Egidio, e di ascoltare le sue preziose convinzioni per capire dove stiamo andando, dove il Medio Oriente sta andando, dove il mondo sta andando… Quanto ho pensato a lui in questi giorni, punteggiati da mille sorprese difficili da spiegare.
Esiste una politica internazionale liquida? Non so cosa avrebbe risposto Bauman. Penso però che, dopo aver lanciato uno sbuffo di fumo dalla sua pipa, avrebbe assentito: «Sì, esiste. Perché tutto è diventato liquido. Le ideologie, il pensiero, gli equilibri, i partiti, le frontiere, forse anche gli uomini». Drammatico, però atrocemente vero. In queste ore esulto perché un brandello di autentica solidità istituzionale arriva da Parigi, dalla città della luce, da un uomo che non dobbiamo mai sottovalutare: il presidente francese Emmanuel Macron. Nome biblico e forti ideali europei. Macron ha fatto quel che nell’Unione Europea nessuno ha osato. Una tappa non prevista in Arabia Saudita, per parlare e ammorbidire gli entusiasmi pericolosi dell’erede al trono Mohammed bin Salman, figlio del re, e per strappargli un «ostaggio di fatto», il primo ministro libanese Saad Hariri, che da Riad si è dimesso dal suo ruolo e dal suo compito libanese, come se fosse un prigioniero impossibilitato a ragionare e a decidere con la propria testa.
L’erede al trono saudita bin Salman, giovanotto 32enne di belle speranze, sicuramente non bacchettone, di certo progressista, ma già ammaliato dall’onnipotenza che regala il delirio del potere, ha deciso che i dollari e la poltrona sono tutto e che quindi Saad Hariri (la sua famiglia ha da sempre rapporti privilegiati con il regno) deve obbedire, e dichiarare guerra aperta agli altri protagonisti fondamentali degli equilibri libanesi, rilanciando il conflitto più velenoso nel mondo musulmano: quello tra sunniti e sciiti. Ha spinto (leggere «costretto») Saad ad attaccare l’Iran e l’Hezbollah, che poi è l’esercito parallelo della Repubblica dei cedri, e a dimettersi da primo ministro. Vera violenza istituzionale.
Sunniti e sciiti sono come i «parenti serpenti» del film di Mario Monicelli, e meno superficialmente rappresentano le due anime dell’islam: i presuntuosi e intransigenti sunniti, diretti e diletti figli del profeta Maometto, e la minoranza sciita, nata e cresciuta con la rivolta di Ali, cugino primo e genero del profeta avendo sposato la figlia Fatima, contro lo strapotere della maggioranza. Ancora una volta, come sempre, si tratta di un conflitto sociale ed economico, proprio come quello che oppose la Chiesa cattolica ai protestanti. Forte e arrogante la prima, progressisti ma deboli quelli che ne mettevano in discussione il potere assoluto. Fortunati i primi (i sunniti), assai meno fortunata la minoranza dei musulmani (gli sciiti) che riuscì a prevalere nel Paese più antico e colto dell’islam, cioè l’Iran. È da allora, e sono passati quasi 15 secoli, che quel conflitto pesa sul Medio Oriente, e continuerà a pesare fino a quando si imporrà (speriamolo) la forza di un rinascimento.
Il sunnita libanese Saad Hariri è sicuramente un debole, ben diverso da suo padre Rafic, mio grande amico, che sapeva rifugiarsi nel coraggio di non avere paura. Rafic, in un’epoca in cui molti giornalisti avevano la schiena dritta, non erano ipocriti interessati e neppure seguaci della prudente e antica «altalena», molto democristiana, intessuta di se , ma, però per non infastidire nessuno, mi faceva telefonare ogni volta che doveva prendere una decisione delicata. Voleva avere il parere e il conforto di un amico. Confesso che a volte questa sua illimitata fiducia mi imbarazzava.
Il figlio primo ministro è sicuramente meno verticale, e, a parte le voci sul suo sostegno armato a qualche brigata dei tagliagole dell’Isis oltre la frontiera con la Siria, è un uomo fragile con estremo bisogno di protettori. Chi, se non il principe emergente dell’Arabia Saudita, che ha pieni poteri, che forse riceverà lo scettro prima del previsto, e che per garantirselo ha già messo in custodia tutti i concorrenti, nella più grande «purga familiare» vissuta da un Paese arabo? Guerra alla corruzione? Ma ci faccia il piacere, principe Mohammed. È come se volesse convincerci che Donald Trump sia pronto ad accettare il castigo del silenzio. Il futuro re, che forse sogna di cambiare il nome al suo Paese — da Arabia Saudita a Arabia Salmanita — come ha scritto sarcasticamente il giornalista del «New York Times» Thomas Friedman, sta facendo in pochi mesi quel che nel regno non si è mai fatto: correre a caccia di traguardi sociali, allontanarsi dai custodi religiosi dell’ortodossia wahabita, lanciare riforme che dappertutto sarebbero scontate salvo nel regno (il diritto alla guida per le donne), raccordarsi con l’aggressività assai poco democratica di tanti leader mondiali, e abbracciare il decisionismo più ruvido, laggiù parecchio innaturale.
In nome del rilancio dell’odio contro la minoranza sciita e l’Iran, ha intensificato la sanguinosa guerra nello Yemen (di cui si parla troppo poco), che si è trasformata in una mostruosa carneficina. Si è lasciato corteggiare dal presidente americano Trump, facendo firmare a suo padre re Salman impegni per quasi 500 miliardi di dollari in armamento statunitense. Ha poi dato il via libera al selvaggio isolamento del piccolo ma ricchissimo Qatar, considerandolo un pericoloso concorrente economico e anche religioso, visto che Doha ha rapporti stretti con il nemico Iran. Infine ha centuplicato gli sforzi per coinvolgere Israele, e convincerlo a condurre una guerra, magari a bassa intensità, contro l’odiata Teheran, contando sulle ambizioni del primo ministro-tartufo Benjamin Netanyahu, che ha un mare di difetti, che nuota tra mille guai, ma che non è uno sciocco. Un conto è trattare con i sauditi, nemici e insieme alleati (fantastico ossimoro strategico mediorientale), un conto è venire considerato una pedina per il «lavoro sporco». Tanto più che questo «lavoro sporco» potrebbe venire inteso come un tentativo di tacitare le continue esplosioni del conflitto israeliano-palestinese, cioè la madre o il padre di tutte le tragedie mediorientali. Anche nell’egoista Arabia Saudita, nessuno osa dimenticare le sofferenze del popolo palestinese, che chiede disperatamente quell’autodeterminazione che Israele si ostina a non concedere.
Ma ora siamo all’accelerazione più pericolosa, nella tribolata Arabia Saudita. Dopo aver arrestato, seppur in alberghi di lusso trasformati in dorate prigioni, tutti i prìncipi suoi concorrenti per il trono, bin Salman è andato a toccare il Libano e i suoi delicatissimi equilibri, rischiando di far deflagrare la pace garantita, salvo saltuarie «esplosioni», dalla rigorosa e confermata distribuzione dei poteri. Ricevere a Riad Saad Hariri, spingendolo a dimettersi da primo ministro e ad attaccare frontalmente l’Iran e l’Hezbollah, sottintendendo naturalmente la Siria del presidente Assad, è stato un vero azzardo, con il rischio, sempre concreto, di una guerra immediata da combattere proprio nella dolce e martoriata Repubblica dei cedri.
A volte, conoscendo il Libano da lungo tempo, mi chiedo dove sbagliamo. Se Saad sia soltanto uno sprovveduto, oppure abbia paura di essere superato dal suo fratellastro Bahaa, ben più grintoso, pronto a obbedire con maggiore entusiasmo a Riad; oppure se pesino i debiti miliardari contratti da Saad con il regno.
Il dinamico e spregiudicato principe saudita, infatti, ha fatto i conti regionali dimenticando il nuovo potentissimo attore, la new entry nella politica mediorientale: la Russia di Vladimir Putin. Mosca, che entrando nell’area ha coronato un progetto sempre vanamente inseguito, non intende soggiacere a ricatti. Ha ottimi rapporti con l’Iran e con Israele, difende strenuamente la Siria di Assad, e segue con interesse le ricche monarchie del Golfo. Da una parte la Russia ha evitato l’allargamento del conflitto siriano, sconvolto da una guerra fratricida, combattuta spesso per conto terzi; dall’altra ha scoperchiato gli arditi affari della Turchia del presidente Erdogan con i tagliagole dell’Isis e il loro petrolio, imbarazzando poi il doppiogiochismo di altri importanti attori, a cominciare dagli Usa, ma anche di qualche Paese europeo.
Putin ha sicuramente una visione realistica e assai spregiudicata della politica internazionale, e in questo momento è concentrato proprio sui tentacoli mediterranei. Ma non solo. Se con alcune mosse cerca di garantire l’incerta stabilità nella regione, mosse delle quali dovremmo essergli grati, con altre mosse sta facendo l’impossibile per indebolire l’Unione Europea. Sappiamo tutti che la sola idea (assai teorica) di una Ue compatta e forte non è gradita né a Washington né a Mosca, in questo caso non certo divergenti. Ma se gli Stati Uniti devono imboccare la strada della prudenza per ragioni strategiche (Nato), economiche, e per la consolidata rete di storiche alleanze, la Russia può interferire più liberamente. Molto interessante la polemica tra il Cremlino e la premier britannica Theresa May, dopo che è stata denunciata una sofisticata campagna digital mediatica di Mosca per sostenere la Brexit. Che dire poi delle interferenze russe in Catalogna, con sottili e massicce campagne sui social a favore dell’indipendenza, per minare la credibilità della Spagna e del regno di Felipe? Che dire dell’interessato silenzio di Mosca sulle manifestazioni antisemite polacche? E magari sull’indisciplina europea dell’Ungheria di Orbán, della Repubblica Ceca e della Slovacchia? Tutto ciò che indebolisce l’Unione Europea viene sostenuto subliminalmente (o quasi) da Mosca. Con una grande eccezione: la Francia, l’orgogliosa Francia. Gli emissari tecno-digitali di Putin ce l’hanno messa tutta per sostenere gli antieuropeisti della Le Pen. Hanno perduto perché ha vinto invece un personaggio fuori dagli schemi, per nulla «liquido», per dirla alla Bauman, come il presidente Macron.
Con la Germania della signora Merkel in difficoltà perché non riesce a formare un governo, ecco che Macron, contando sul potere e sull’immagine della Francia in Medio Oriente e in particolare in Libano, è sceso in campo. È andato a Riad (visita non prevista) da bin Salman, ha parlato con Saad Hariri, lo ha invitato e ricevuto a Parigi per dimostrare — con straordinaria ipocrisia realistica — che il primo ministro dimissionario è libero, può viaggiare, e regalandogli l’aureola di un «protetto francese». Mossa decisamente astuta, bravo Macron che convince Hariri a tornare a Beirut con la sua benedizione! Ma anche il presidente francese sa che i tentacoli mediorientali sono velenosi e che Saad Hariri, tornato a casa per affrontare la resa dei conti, prima è sceso al Cairo dal più grande alleato dell’Arabia Saudita: il presidente egiziano Al-Sisi, altro bastione sunnita, nemico della sciita Teheran ma che non vuole grane con l’Hezbollah libanese. Hariri, ricevuto a Beirut dal presidente Michel Aoun, ha sospeso (non ritirato) le dimissioni. Insomma è tutto pericolosamente sospeso. Nel groviglio, occorre un mediatore o un pontiere. Se non lo si trova, la guerra sarà imminente.