Come si smonta Damien Hirst.

Il tedesco Albert Oehlen non è uno sconosciuto. Un bad boy dell’arte che ha sempre voluto giocare sull’effetto sorpresa e che lo ha fatto sempre con grande successo: il suo Müllflasche , olio su tela del 2004, è stato ad esempio venduto meno di dieci giorni fa da Sotheby’s New York per 1.026.382 euro, in pratica il doppio della quotazione di partenza. Eppure il suo prossimo compito si annuncia assai complesso, al pari della battaglia che verrà intrapresa, in contemporanea, anche da Cindy Sherman, Maurizio Cattelan, Claude Cahun. Saranno infatti le loro opere a sostituire fisicamente, dal prossimo aprile, Damien Hirst e il suo universo di angeli, demoni, sfingi, putti che sembrano Topolino, meduse degne di un film di Tarantino e altre creature sorprendenti, raccolto dallo scorso aprile a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana, le location veneziane di Treasures from the wreck of the unbelievable . Una mostra dei record (1.600 la media giornaliera di biglietti staccati) o, almeno, quella di cui si è più parlato quest’anno.

È il momento di traslocare, per Damien Hirst. Ma da buon bad boy (inglese) non manifesta alcuna paura di essere smontato: «Certo, sono sempre triste quando chiude una mostra. È fisiologico, è normale — racconta a “la Lettura” seduto davanti al grande tavolo bianco della sala riunioni di Palazzo Grassi, giubbotto nero con borchie dorate e catena con tanti piccoli teschi — ma, al tempo stesso, vederla conclusa mi eccita, perché così quella mostra può entrare nella storia, nel mito. Può diventare immortale». E, con un tocco di sadismo, aggiunge: «Chi non ha visto le mie donne leone, le mie maschere di lupo, le mie conchiglie giganti a Venezia, da dicembre potrà soltanto immaginarsele».

D’altra parte, la «dispersione» delle opere di Palazzo Grassi e Punta della Dogana è legata fin dalle origini all’idea stessa che ha fatto scaturire la mostra patrocinata dalla Fondazione Pinault: presentata come un’esposizione dell’immaginario tesoro di una nave d’età romana ritrovata e riportata a galla duemila anni dopo proprio da Hirst che, non a caso, si è voluto ritrarre in un busto di bronzo, nelle vesti del collezionista. «Tutto quello che è stato esposto a Venezia è arrivato qui da un altro luogo e in un altro luogo è destinato a tornare, qui è stato messo insieme per la prima e forse ultima volta, poi tutto verrà ancora disperso. Niente di nuovo o di scandaloso: è quanto dovrebbe sempre accadere alle collezioni d’arte, create per essere raccolte, disperse e poi ancora ricostruite in un’altra parte del mondo, in un altro modo».

Certo, però, che per smontare questo Damien veneziano ci vorrà molto impegno. Anche fisico. E almeno quattro mesi di tempo: dal 3 dicembre all’8 aprile, quando apriranno la mostra di Oehlen (a Palazzo Grassi) e Dancing with myself (a Punta della Dogana con Sherman, Cattelan, Cahun e altri). Basterebbe pensare al Demon with bowl che con i suoi 18 metri di altezza ha di fatto occupato la corte interna di Palazzo Grassi (leggenda vuole che fosse stato calato dal tetto da un elicottero, in realtà ci è arrivato a pezzi), ipotetica raffigurazione in resina dipinta del terribile dio Pazuzu: «Solo per smontarlo, oltre a una enorme gru, ci vorranno due settimane e 20 tecnici esterni oltre al normale staff del museo», più o meno lo stesso tempo impiegato per il montaggio, anche se allora era stato necessario un ulteriore mese di lavorazione per la patinatura simil-bronzo.

Tecnicamente Pazuzu sarà diviso in nove pezzi, da tirare giù con le funi e da chiudere in altrettanti container che, prima via mare e poi in aereo, torneranno nel laboratorio dell’artista, alle porte di Londra. Ancora più complicato si prospetta lo smontaggio di Andromeda and the Sea Monster , l’opera più pesante esposta a Palazzo Grassi, oltre settemila chili (giocati, secondo il miglior stile di Hirst, sulla mistificazione) di bronzo che vuole invece sembrare resina, prima opera ad essere installata, prima ancora dello stesso Demone, «per motivi tecnici e di sicurezza» : perché nel caso di Andromeda sarà necessario dismettere anche le strutture destinate a evitare danni «da carico» all’edificio.

Tutto comincerà il giorno immediatamente successivo alla chiusura: lunedì 4. Da allora Hirst non sarà più protagonista. Lo smontaggio «sarà lungo e complesso» ribadisce l’artista che per l’occasione svela anche la sua opera preferita: Sadness , un’inquietante figura in oro (un po’ scimmia, un po’ scheletro, un po’ ET) perché «è il primo tesoro ritrovato dopo il naufragio». E non sarà un momento pubblico come era invece accaduto nel 2016 in occasione di Serial Classic alla Fondazione Prada di Milano, quando per circa due settimane era stato possibile assistere al disallestimento della mostra, dalle due passerelle che corrono lungo il perimetro vetrato del Podium, permettendo ai visitatori di scoprire il dietro le quinte della mostra e osservare da un punto di vista privilegiato le operazioni di smontaggio, imballaggio e trasporto di opere archeologiche.

Che fine faranno i bronzi, gli ori, i lapislazzuli, le resine? «Qualcuno finirà in un museo, qualcuno nelle stanze di un collezionista». Tutto già venduto a caro prezzo come si favoleggia (4 mila dollari per i piccoli oggetti di giada, 4 milioni per una testa di Medusa in malachite)? Hirst sorride, senza rispondere: «Gran parte dei lavori sono stati realizzati in tre edizioni, spesso in un materiale differente, qualche volta sono più preziosi degli originali, qualche volta meno». Ma non la preoccupa il destino di quello che ha creato? «Perché dovrebbe? Sono un artista, faccio il mio lavoro per chi lo sa apprezzare, per chi vuole magari comprarsi un mio teschio in argento e guardarselo in piena solitudine. Non mi interessa sapere dove sia fisicamente e non ho mai voglia di rivederlo: mi basta sapere che possa rendere felice qualcuno».

Lo smontaggio delle mostre di Venezia non è solo fisico. Con le sue affermazioni Hirst ribadisce l’idea di esposizione come momento unico e irripetibile: «Sono orgoglioso di quello che ho fatto ma sono altrettanto felice che ora tutto questo venga sparso per il mondo». Una sensazione che potrebbe trovare ulteriore conferma nei dati sui flussi che Treasures from the wreck to the unbelievable aveva già scatenato, fino a giugno, sui social di Palazzo Grassi: oltre 15 milioni di visualizzazioni. O da un passaggio, per quanto rapido, per le sale affollate di bambini («Saranno loro i miei collezionisti del futuro») e da visitatori di tutte le età impegnati più nei selfie davanti a The warrior and the bear (seconda solo al Demone tra le opere più fotografate) che non nell’osservazione attenta dei coralli e delle monete («Sarebbe stato molto peggio se nessuno avesse avuto voglia di farseli»). Tutti elementi legati a una nuova idea di museo e mostra più libera.

Spiega Hirst: «Mi sento molto fortunato quando mi siedo sul divano di casa davanti al mio Bacon, proprio per questo, ogni volta che me lo chiedono in prestito per una mostra, dico sempre di sì, quasi per liberarmi dal senso di colpa, perché continuo a essere convinto che l’arte debba essere per tutti, sempre e comunque». Anche per la coppia di anziani conterranei, di Leeds, che Damien ha incontrato per caso proprio nelle stanze di Palazzo Grassi: «Non erano mai stati a Venezia, ci sono venuti soltanto per vedere la mostra, ci siamo fatti un selfie tutti insieme e poi loro sono ripartiti». Senza sapere che, magari, sarebbero potuti tornare in Inghilterra addirittura con uno dei 9 pezzi del Demone chiuso nella stiva dell’aereo.

 

Domenica 26 Novembre 2017 La Lettura.

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