La politica e il cambio di stagione, riparte il pressing

 

La politica e il cambio di stagione, riparte il pressing

di Massimo Franco

 

Forse è esagerato parlare di prove di assedio. Nei confronti di Mario Draghi si indovina piuttosto la tentazione di condizionarlo sempre di più; di inserire nella sua agenda di riforme piccole bandierine di partito, da sventolare davanti all’elettorato per mostrare una politica pronta a tornare protagonista. Si potrebbero citare tanti episodi, ma si tratta di un clima, di una sensazione. Dopo otto mesi di basso profilo, appena superato il voto amministrativo vincitori e sconfitti hanno deciso di rialzare la testa; e di farlo a spese di Palazzo Chigi.

Punto di partenza sembra la convinzione, assai opinabile, che l’emergenza della pandemia sia passata e i rapporti con la Commissione Ue avviati lungo una traiettoria virtuosa e irreversibile. Ormai, qualcuno ritiene di dovere solo affinare le riforme strutturali per le quali arriveranno gli aiuti; e di lasciare lavorare il premier e il suo governo per rimettere l’Italia in carreggiata, non lasciandogli, però, troppo campo aperto. Poi, si tornerà alla «normalità». Lo schema è suggestivo, ma ha il difetto di dare per scontato l’esito di un lavoro tuttora in corso, anzi appena agli inizi. Tradisce l’impazienza di partiti che in questi mesi hanno non solo sostenuto convintamente ma spesso sopportato l’esecutivo, la maggioranza e le logiche rappresentati da Draghi. E, ritenendo il pericolo di una crisi di sistema più o meno superato, rivendicano la volontà di non assecondare le scelte di Palazzo Chigi, a destra e a sinistra, incoraggiati dal nervosismo dei sindacati. Eppure, le percentuali dell’astensionismo alle ultime Amministrative raccontano forze politiche ancora sotto esame da parte dell’elettorato; e premiate di più quando accettano e appoggiano la sfida di Draghi. Pensare che la loro crisi di identità e di credibilità sia alle spalle significherebbe non capire quanta strada ci sia ancora da fare. Viene come rimosso l’impegno tacito assunto quando nel febbraio scorso l’ex presidente della Banca centrale europea è diventato presidente del Consiglio: rigenerarsi e rilegittimarsi all’ombra di un esecutivo nato nel segno dell’emergenza e composto da forze che mai si sarebbero messe insieme se non per stato di necessità. Al momento, questa trasformazione non si è ancora vista, come dimostrano anche molte delle candidature a sindaco nelle città d’Italia. Per questo, utilizzare la manovra finanziaria in arrivo per circondare di paletti e veti le riforme di Draghi sarebbe rischioso. Il malumore diffuso verso alcuni suoi collaboratori non basta a giustificare le resistenze e le riserve: quello ha l’aria di un pretesto. Il tema è che cosa la classe politica vuole fare con e di Draghi. Quanto sia disposta a mettere in discussione posizioni di rendita sempre più marginali e precarie, rispetto a un progetto di cambiamento radicale dello Stato. Ma l’aspetto sottovalutato è quello delle conseguenze che un fallimento dell’esperimento in corso avrebbe. Riemergerebbe una politica ancora convalescente, infragilita dall’involuzione populista degli ultimi anni, e privata di un punto di riferimento che, purtroppo, oggi rappresenta una delle poche garanzie a disposizione del Paese sul piano internazionale. Il sospetto è che premere troppo su Draghi finisca, in realtà, per soffocare un’occasione rara di costruire il futuro: anche perché il ritorno alla «normalità» del passato sa di miraggio pericoloso. L’Europa e i mercati finanziari sarebbero pronti a ricordarcelo senza troppi complimenti.

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