La pellicola che dà del tu a Shakespeare.

di J.M. Coetzee

I sette samurai viene di solito presentato come un film d’azione, ma è molto di più. Il film non è solo un’esibizione delle eroiche virtù marziali, e nemmeno solo un’esplorazione della società giapponese in un momento di cambiamento radicale: ha anche una solida base concettuale, che si esprime in una narrazione coerente seppur pessimistica di come nasce l’organizzazione della società umana. Per la sicurezza con cui dispiega le sue risorse filosofiche, artistiche ed emotive, I sette samurai può essere definito il film più shakespeariano di Kurosawa e infatti regge il confronto con i drammi storici di Shakespeare.

Non c’è spazio, in una breve introduzione come questa, per sviluppare la mia affermazione. Ma basti per ora a mostrare l’alta considerazione e la grande ammirazione che nutro per questo film.

La trama è piuttosto semplice. Un tranquillo villaggio è preso di mira da una banda di quelli che potremmo genericamente definire banditi. Costoro calano sul villaggio diverse volte l’anno, saccheggiando le scorte di viveri, abusando delle donne, uccidendo chi oppone resistenza. Alla fine, gli abitanti del villaggio decidono di ingaggiare dei soldati mercenari — samurai senza padrone — che li proteggano. I sette samurai difendono con successo il villaggio da un attacco a oltranza, sterminando i banditi al costo della vita di quattro di loro. Gli abitanti del villaggio ringraziano i sopravvissuti e li salutano; non hanno più bisogno di loro. Il film termina con la domanda: chi ha vinto? La risposta che si propone è: gli abitanti del villaggio. Su questa risposta il film, come struttura ideologica, ci invita a riflettere. I contadini lavoratori e non violenti vincono sempre? I guerrieri perdono sempre? Certo, una banda di fuorilegge è stata eliminata; ma non sarà sostituita da altre bande, e gli abitanti del villaggio non dovranno ingaggiare altre bande di samurai che li proteggano? E in tal caso, perché non mantenere una guarnigione permanente di samurai? Ma qual è la differenza, sul piano pratico, tra pagare la tassa per mantenere la guarnigione permanente e sottomettersi al saccheggio dei banditi? Può una qualsiasi comunità agricola prosperare senza pagare per essere protetta e quindi subordinarsi a una casta militare improduttiva? La domanda riecheggia nella storia, dai tempi della rivoluzione neolitica fino al presente. I sette samurai risale al 1954, quando Kurosawa era già una personalità di primo piano nel cinema giapponese, con alle spalle un corpus di lavoro che includeva Rashomon (1950), un film che aveva conquistato la critica a livello mondiale. Nei Sette samurai Kurosawa si ripropone il non banale compito di rinnovare il genere del film storico, il jidaigeki (al contrario del gendaigeki , il film della vita moderna).

Il jidaigeki era entrato in crisi durante l’occupazione statunitense del Giappone durata sette anni, dal 1945 al 1952. Il settore culturale delle forze di occupazione aveva concepito il grandioso progetto di utilizzare l’industria cinematografica giapponese in una campagna intesa a eliminare tutto ciò che veniva considerato come un residuo di feudalesimo, militarismo e ultranazionalismo nella vita giapponese. All’interno di quel programma il teatro kabuki e i film jidaigeki divennero i bersagli prediletti. Fu stilato un elenco di intrecci che non sarebbero più stati consentiti. Tra questi tutte le trame che ruotavano intorno alla vendetta come motivazione, quelle che presentavano la fedeltà feudale o il disprezzo della vita come desiderabile e onorevole, qualsiasi intreccio che approvasse direttamente o indirettamente il suicidio. In effetti, sotto l’occupazione i film storici erano vietati, a meno che non criticassero esplicitamente il Bushido , la vendetta e altri ideali feudali.

Il Bushido , per inciso, è un sistema etico che valorizza la compassione, la fermezza, l’onestà morale e l’unità di azione e di convinzione. Il Bushido era già considerato obsoleto quando Kurosawa era giovane, ma c’è motivo di credere che onorasse quel codice e volesse rendergli onore nei Sette samurai .

In realtà le autorità di occupazione che tentarono di sopprimere il jidaigeki avevano frainteso il genere, che si era sviluppato non per celebrare i valori feudali ma, al contrario, per esplorare l’impatto della modernizzazione sulla società giapponese. Ignoravano il fatto che il governo giapponese militaristico degli anni Trenta e Quaranta aveva disprezzato il jidaigeki come una forma di intrattenimento troppo leggera. La censura praticamente distrusse il jidaigeki . Anche dopo che il controllo delle forze di occupazione ebbe smesso di operare, nel 1949, la nuova commissione per la censura istituita dai giapponesi applicò una politica che limitava l’uscita dei film jidaigeki a uno al mese per ogni casa di produzione.

La censura non fu l’unica ragione del declino del jidaigeki come genere. Prima della guerra, la crisi centrale della storia giapponese veniva generalmente identificata con il ripristino del potere imperiale nel 1860 e l’apertura del Giappone all’Occidente. Ma dopo il 1945 fu la sconfitta del Paese nella Seconda guerra mondiale a diventare il nodo cruciale. Per il cinema giapponese del dopoguerra, la questione principale era come trattare la guerra e il caos della vita contemporanea. A questo interrogativo il cinema giapponese rispose soprattutto producendo film che affermavano il radicale rinnovamento del Giappone del dopoguerra.

I sette samurai è l’opera di un maestro al massimo delle sue capacità. La narrazione — basata sulla sceneggiatura originale di Kurosawa e di due collaboratori — procede seguendo una linea retta carica di suspense. Una traiettoria epica intervallata da episodi di commedia e romanticismo secondo la ben sperimentata formula shakespeariana. Le capacità dei singoli attori vengono sfruttate al massimo. Da Toshiro Mifune, il «falso» samurai, Kurosawa ottiene una performance di straordinaria versatilità, dal clown folle alla tragedia del disgusto di sé.

L’assalto a oltranza del villaggio, verso la fine del film, è uno degli episodi seminali del cinema moderno, una dimostrazione virtuosistica di azione filmica: fu girato più e più volte, con tre cineprese simultaneamente, in pieno inverno, sotto una pioggia gelida. Per mantenere tutto a fuoco contemporaneamente (faceva parte della filosofia di regia di Kurosawa che ogni cosa nell’inquadratura dovesse essere perfettamente a fuoco) utilizzava abbondantemente le lenti lunghe, il che però richiedeva una grande quantità di luce. Il montaggio è un miracolo di discrezione: si va via con l’impressione di un’azione fluida, mentre in verità la sequenza contiene una molteplicità di tagli quasi invisibili.

Una versione del film, ridotta di quasi 60 minuti, fu presentata alla Mostra del cinema di Venezia nel 1954 e vinse il Leone d’argento. Nel 1975 è uscito il film in versione integrale.

 

 

  • Domenica 27 Agosto, 2017
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