Combattivo, ma cont e m p o r a n e a m e n t e evasivo. Puntiglioso nel difendere i risultati del suo governo, ma vago nell’indicare la via della ricostruzione del centrosinistra. Poche e deboli aperture nei confronti dei possibili alleati elettorali e tenace invece – nel rivendicare la legittimità del suo restare leader del Pd. La sconfitta siciliana, dunque, non sembra aver lasciato segni nel modo di argomentare di Matteo Renzi: più o meno, come se non fosse mai avvenuta. E potremmo dire che è questo, in sintesi, il copione mandato in scena ieri dal segretario democratico negli studi televisivi de «La7», dove avrebbe dovuto svolgersi il faccia a faccia invece disertato da Luigi Di Maio. Difficile dire se fosse realistico aspettarsi altro: il carattere ed il modo di intendere l’azione politica del leader Pd sono ormai noti, e non hanno mai lasciato grande spazio all’autocritica o alla riflessione collegiale. Ma dopo il voto in Sicilia e le difficoltà in cui si agita il Pd, non erano in pochi ad attendersi una correzione di rotta, se non proprio un cambio di passo. Non pare sia questa – invece – la direttrice di marcia scelta: e non ci vorrà molto a registrare effetti e conseguenze di tale decisione. Intorno a lui, però, le operazioni di accerchiamento sono intanto ormai quasi completate, e lo spazio di manovra di Matteo Renzi sembra farsi sempre più limitato. La saldatura tra il fronte degli avversari interni e i possibili alleati alle elezioni, infatti, è cosa fatta: e a dettare le condizioni ora sembrano esser loro. L’offerta che fanno al segretario comincia a somigliare molto ad una di quelle che, come si dice, «non si possono rifiutare». Ed è sintetizzabile più o meno così: caro Matteo, puoi restare segretario ma a patto che annunci chiaramente un passo indietro sulla futura premiership. Una dialettica inimmaginabile ancora fino a un anno fa, diciamo fino alla sconfitta nel referendum costituzionale del 4 dicembre scorso: una data spartiacque per l’allora segretario-premier. Da lì in poi, per errori commessi e per quelle paradossali stimmate da «perdente» che hanno cominciato a segnarne il profilo (Liguria, Torino, Roma, il referendum e poi Genova, la Sicilia) la parabola discendente del «rottamatore» è sembrata farsi inarrestabile. E oggi, nel momento della massima difficoltà, Matteo Renzi sta facendo i conti con l’altra faccia della medaglia dell’insidiosa metafora dell’«uomo solo al comando». Non ha più molti amici disposti a condividerne le difficoltà: e in ragione dei modi spicci con i quali ha gestito il grande potere detenuto per tre anni, non ha più – soprattutto molta gente in giro che si fidi di lui. Con Enrico Letta è andata come è andata; con Berlusconi non molto meglio, dopo quello che l’ex Cavaliere considerò il «tradimento» del patto del Nazareno; con Alfano ha rotto quando tentò di far passare una legge elettorale alla tedesca che avrebbe tenuto Alternativa popolare fuori dal Parlamento; per non dire dei rapporti all’interno del Pd, anche al netto di chi ha fatto i bagagli ed è già andato via. Verrebbe da chiedersi come sia stato possibile, ed in così poco tempo. Le risposte possono essere diverse, ma il ricorso ai tempi che corrono (certo difficili per la sinistra in tutto il mondo) non basta a spiegare tutto. Così come non è sufficiente aggrapparsi alla pur incontestabile annotazione che l’Italia, oltre a non essere un Paese per giovani, certo non è terra favorevole ai rinnovatori. Sia come sia, è però più o meno in questo quadro che Matteo Renzi si accinge a giocare quella che – in caso di sconfitta alle prossime elezioni – molti immaginano essere la sua ultima battaglia da leader. Si tratta di una sfida che il Pd e il centrosinistra sbaglierebbero a considerare (come accaduto per la Sicilia) già persa: ma la possibilità di un buon risultato sembra ormai passare, appunto, attraverso un passo indietro dell’ex presidente del Consiglio. È questo quel che chiedono i possibili alleati (da Pisapia a Mdp) e ormai anche una buona parte del Pd. Matteo Renzi oscilla tra una possibile disponibilità e la tentazione di giocare anche questa partita alla sua maniera: cioè, solo contro tutti. E se dovesse imboccare questa seconda strada non ci sarebbe, in fondo, da restarne meravigliati. Ed è infatti questa la sensazione trasmessa ieri dal leader Pd anche dagli studi de La7. La sua disponibilità ad andare incontro alle richieste che gli arrivano è parsa di maniera e l’insistenza nella rivendicazione delle cose fatte nei tre anni di governo è stata così netta e insistita da non lasciar spazio o quasi ad autocritiche o ripensamenti. L’impressione è che i potenziali alleati e quanti nel Pd gli chiedono un «passo di lato» non possano esser rimasti soddisfatti dalle cose ascoltate ieri: piuttosto che una spinta al dialogo, hanno ascoltato parole che sembrano preludere al sempreverde «muoia Sansone con tutti i filistei». Nulla di rassicurante, insomma. Ma al voto mancano ancora mesi, ed è per questo che nel centrosinistra c’è chi spera ancora.
La Stampa – FEDERICO GEREMICCA – 08/11/2017 pg. 1,21 ed. Nazionale.