Fuori dai giochi, dai loro tackle quotidiani, che dire delle élite politiche italiane vecchie e nuove? La formazione del governo populista scandisce il tramonto della democrazia dei partiti, collettori di credenze e di larghi interessi sociali e civili. Apre la possibilità di forgiare un cambio di regime (democratico), se la legislatura si protrarrà, a dispetto dei non pochi dubbi sulla solidità della coalizione di governo (“i piedi in due staffe” di Salvini).Sul declino dell’egemonia dei partiti sappiamo: la sua decadenza accompagnata dall’eclissi delle grandi credenze e motivazioni d’appartenenza ideologica; la sua metamorfosi post-ideologica, mediatica, personalizzata, finanziarizzata, a cui non ha resistito. Ha smarrito il senso profondo del gioco destra-sinistra, è quasi evaporata nella politica senza profondità che si forgia su semplificazioni e slogan che si irradiano in superficie. La democrazia dei partiti ha sfornato un’élite politica che è apparsa ai cittadini incapace di garantire crescita e protezione dalle turbolenze di mercato, sempre più autoreferenziale, senza visione per migliorare, senza coraggio di cambiare, mentre negli ultimi trent’anni tutto intorno è cambiato. È apparsa distante, svuotata di contenuti progressivi, inadatta a brillare di luce propria se non attraverso il capo, smontata dall’astensionismo, sbaragliata dai populismi.
Perché l’alternanza destra-sinistra si era ormai persa nell’urto collusivo della grande coalizione. Non era più in grado di mediare l’aporia della nostra democrazia, tra una maggioranza di rappresentati e una minoranza di rappresentanti, già evidenziata da studiosi del calibro di Robert Dahl e Norberto Bobbio. In assenza di contenuti di destra e di sinistra sui quali contendere e con una politica sfiduciata dai cittadini, è salito in superficie il vuoto pneumatico tra “popolo” e un’élite democratica senza autorevolezza, un ossimoro in implosione. La cometa Renzi ne ha ritardato il collasso, perché finalmente era emerso un giovane a capo di un Paese invecchiato e di una classe dirigente quasi inamovibile. Finalmente un rottamatore delle inconcludenze del passato. Il primo Renzi era perciò in profonda sintonia con il mood sociale. Non l’ha saputa mantenere: le sue scelte per promuovere nuove élite traenti, il cerchio magico, si è risolto in un déjà-vu in molti “passati” del Paese. Ha cercato di comandare la linea “tutti dietro il capo”, ma dietro c’era ormai un’élite politica inconsistente, in preda alla sua litigiosità interna. Nel vuoto dell’illuminazione del leader, è riapparsa la querula implosione di un’élite ripiegata su interessi di bottega, testimonianza dell’incapacità dei partiti – ridotti a etichette – di selezionare una classe dirigente in grado di tessere il suo destino personale sul telaio dello sviluppo del Paese.
Della democrazia populista sappiamo poco. Conosciamo i contenuti destabilizzanti della protesta populista. Ora però la musica cambia. Si fa governo di un grande Paese europeo, già considerato dai “nord-continentali” the sick man of Europe, l’ultima ruota del carro, per il suo debito pubblico e, oggi, per il suo governo populista. Sappiamo che il populismo colma il collasso dell’onda, la risacca, delle élite democratiche in crisi, proponendo leader, come Salvini e Di Maio, capaci di mirare direttamente la pancia del popolo. Gaetano Mosca sosterrebbe che è un abbaglio considerare la vittoria populista come fosse del popolo sulle élite: è una pia illusione pensare che i populisti potranno realizzare gran parte delle promesse, perché, al governo, essi stessi, per colmare l’inesperienza, copiano prassi inveterate e le vecchie élite, che avevano finora criticato. Ripropongono quell’aporia che è nella democrazia rappresentativa, per cui è sempre la minoranza a governare la maggioranza. Nel prossimo futuro, assisteremo non più al pericoloso teatrino del conflitto tra élite e popolo, ma a un probabile braccio di ferro tra i leader populisti e poi, forse, con le nuove élite democratiche, se sapranno rigenerarsi a sinistra e a destra.
Per ora, dal 4 marzo è uscita una nuova classe politica che, a dispetto della sua inesperienza, si è assunta una responsabilità di governo. Deve ancora dimostrare tutto. L’avvio non felice (l’ossessione dei migranti e un decreto dignità imbarazzante) è lo scotto dell’inesperienza dei nuovi eletti al governo centrale. Per la Lega, il discorso è diverso, avvezza com’è almeno all’amministrazione delle autonomie locali. Tuttavia, anche la nuova Lega conferma che il populismo non si cura delle proprie élite, ma del proprio leader. La Lega che ha messo nel mirino Bruxelles, anziché Roma, è del “decisore” Salvini. Anche il M5S è tutto schierato dietro al “negoziatore” Di Maio.
La novità populista non è nella qualità delle nuove élite di governo, che, come le precedenti, non sono selezionate sulla base del merito, ma della fedeltà al capo. La novità di regime è che il populismo si fa portatore del senso comune popolare per cui «lo scopo della democrazia è registrare i desideri del popolo quali sono e non quello di contribuire a ciò che potrebbero essere o potrebbero desiderare di essere». Questa frase illuminante di Crawford B. Macpherson tratta da La vita e i tempi della democrazia liberale (Il Saggiatore, 1980) contiene tutte le ragioni della crisi della democrazia dei partiti e i rebus di un mercato politico a maggioranza populista, che funziona senza vere élite traenti, senza cinghie di trasmissione, senza corpi intermedi, ma con leader che sanno intercettare istanze e percezioni popolari quali sono. Purtroppo, non abbiamo classi dirigenti “all’altezza” sia perché la politica non si preoccupa di formarle e selezionarle sia perché sono carenti nel Paese le condizioni culturali e morali per generarle. Se dunque è calata la notte sulle élite politiche dei partiti, il regime populista esce dalla notte insonne della protesta con un’alba ancora carica di luce buia.
Il Sole 24 Ore – Carlo Carboni – 20/07/2018 pg. 1.17. www.ilsole24ore.com/