La mia vita da rifugiata

L’addio all’Iran. La richiesta d’asilo. L’attesa tra gli Emirati Arabi e l’Italia E l’arrivo in America, ultima tra gli ultimi. Parla una scrittrice in esilio
di Dina Nayeri
Eravamo richiedenti asilo da sedici mesi, trascorsi tra ostelli negli Emirati Arabi Uniti e in Italia, quando la mia famiglia arrivò in Oklahoma. In Iran facevamo parte di una rispettata famiglia di medici e studiosi. Ora, come rifugiati, la cosa più dura da sopportare non erano la fame o il freddo, ma la vergogna quotidiana: per il poco che avevamo ora, perché i nostri titoli di studio iraniani non servivano a nulla, per il colore della nostra pelle, per l’odore pungente dei piatti che cucinavamo, per le nostre usanze straniere.
Andammo ad abitare in un residence sgangherato nella parte “male” della città. Era un posto irrecuperabile: in un parcheggio pieno di pezzi di metallo arrugginito, cumuli di cicche di sigaretta si cuocevano dentro pozze d’olio; bambini sporchi bighellonavano in un misero fossatello fino a sera inoltrata. Nella nostra nuova comunità, ci aspettavamo di trovare immigrati come noi, altre persone appena arrivate e smaniose di studiare, di lavorare. Invece eravamo circondati da americani poveri, e questo ci rendeva diffidenti: come avevano fatto a finire qui pur avendo avuto tutti i vantaggi possibili, passaporti americani, scuole americane?
Io, mia madre e mio fratello vivevamo in due stanze e ce ne stavamo per conto nostro. Dopo qualche mese mia madre si sposò con un iraniano come noi, di nome Rahim, e sua figlia, che era per metà americana, a volte stava con noi. Io non ero abituata a vivere in modo così modesto. Avevamo a malapena spazio per respirare.
Eppure adoravo le visite della mia sorellastra. Era la mia unica amica e potevo fidarmi che non avrebbe spifferato i nostri segreti iraniani alle nostre compagne di classe perché erano una macchia anche per lei. Però aveva accesso a qualcosa che a me era precluso: radici americane, fierezza americana, la possibilità di essere semplicemente se stessa. Quando avevo undici anni, tagliarono via i miei bei capelli lunghi per farmi un terrificante taglio alla tedesca, stile Joan Jett. Poi arrivò la pubertà e il mio naso iraniano cominciò a spuntare fuori. Mi sembrava ormai che perfino il mio corpo stesse arrendendosi all’inutilità degli sforzi infiniti per apparire normale, o americana.
Il nostro minuscolo appartamento era un rifugio. Era uno spazio esclusivamente iraniano, che poteva puzzare di curcuma e cipolla ed essere ricoperto di tappeti lanuginosi e dai colori accesi senza che a nessuno importasse. Era un posto dove gli americani non penetravano.
In uno spazio così piccolo, la calura dell’Oklahoma rendeva fastidioso cucinare tutti i giorni, così, un giorno di agosto, decidemmo di cucinare per tutta la settimana. A metà mattinata Rahim, senza camicia, era in cucina che cuoceva il riso a vapore, affettava le melanzane, tagliava a cubetti le cipolle avanzate. Una pentola con il più buono dei piatti persiani, il ghormeh sabzi , un profumatissimo stufato d’agnello, sobbolliva sul fornello ricoprendo ogni superficie con il suo aroma pungente. L’odore sarebbe rimasto per giorni, ma chi se ne importava? Tanto eravamo solo noi. Mia madre aveva apparecchiato sul pavimento del salotto, sopra vecchie lenzuola trasformate in un sofreh , un tappeto leggero che si usa per mangiare.
Avevamo lasciato la porta d’ingresso socchiusa e dopo poco una faccia fece timidamente capolino. Apparteneva al giovane pastore della nostra nuova chiesa, un uomo sui venticinque anni che sembrava fresco come una rosa nonostante quel caldo apocalittico. «Salve! Siamo il gruppo di benvenuto!», disse con quel modo di fare caloroso e rilassato dell’Oklahoma, che presto avrei imparato a conoscere.
Entrò in casa. Dietro di lui, esitanti, c’erano quattro ragazzini della mia scuola, che si guardavano intorno e sussurravano fra loro. Uno annusava l’aria.
Anche se sono passati trent’anni, non ho mai provato così tanta vergogna come quella mattina. Come quasi tutti, ho trovato cento modi per rendermi ridicola. Una volta mi è venuto il mal d’auto e il mio capo ha dovuto tenermi indietro i capelli mentre vomitavo sul ciglio della strada. Un’altra volta sono entrata sulla pista da ballo con la gonna infilata dentro le mutande. Ma ero adulta quando sono successe quelle cose e avevo la scorza più dura. Il giorno che il gruppo giovanile venne in visita, ero abbastanza piccola da essere devastata.
Ed è questo che la maggior parte delle persone non riesce a capire del fatto di essere un profugo: la vergogna è costante e lo sguardo occidentale scandisce ogni passo. Un secondo dopo aver capito che quelle persone intendevano entrare, vidi tutto attraverso occhi nuovi, occhi americani. Le nostre lenzuola riadattate a tovaglia, i nostri vestiti da bancarella dell’usato, gli odori strani della nostra cucina, il nostro bagno con la bacinella per lavarsi, i nostri libri iraniani e le foto dei nostri giorni da profughi.
I visitatori non rimasero a lungo. Eravamo così impacciati, mentre correvamo di qua e di là per offrire il tè, mentre riavvolgevamo il sofreh . Per loro era una visita da niente, si erano solo fermati a dare un saluto, ma a me aveva rovinato il weekend. Forse oggi le persone sono più sensibili rispetto alla dignità e alla classe sociale, alla crudeltà con cui ci si relaziona con gli altri, soprattutto negli spazi privati.
Ma per noi non era soltanto il fatto di essere poveri. Era un mix velenoso di umiliazioni riservate ai rifugiati: il marchio d’infamia per le nostre origini mediorientali, la nostra povertà, il fatto che fossimo finiti così lontani da casa, che avessimo perso così tanto di noi. In Iran, mia madre era un medico, e questo pesava nel nostro calcolo privato della vergogna.
Tutto questo ormai è finito da tempo. Mi sono assimilata e sono andata oltre, ho conseguito titoli di studio e rivendicato la mia facoltà di viaggiare. Quello che ricordo della mia esperienza di bambina rifugiata è questo: la dignità è importante. Quando ero una rifugiata, i nostri bisogni tangibili contavano poco rispetto a quelli psicologici. Quando hai fame – ho imparato presto – lo stomaco ti fa male, ma è l’orgoglio che resta menomato. E ci vuole una vita intera di cure per riportarlo alla forma originale.
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