La linea rossa della crisi istituzionale.

Entrata ormai nel suo terzo mese, la crisi politica appare priva di sbocchi e a questo punto bisogna solo augurarsi che non sfoci in una crisi istituzionale. Ossia che non si varchi la linea rossa oltre la quale i vertici delle istituzioni non sono più in grado di gestire le dinamiche di un sistema politico accartocciato su se stesso. Ecco perché si avverte la sottile inquietudine che accompagna i passaggi politici drammatici. Si attendono le decisioni del presidente, previste per martedì o mercoledì, ma si pensa già al dopo. Nel senso che il governo “neutro” o di tregua o “del presidente”, ossia un esecutivo a guida tecnica votato dall’intero arco politico, quasi certamente è destinato a essere battuto in Parlamento, aprendo la strada alle elezioni anticipate.

Cosa può modificare questa prospettiva? Forse solo un intervento molto deciso e mirato di Mattarella. Anzi, un doppio intervento: presso le forze politiche per richiamarle con forza al senso di responsabilità; e presso l’opinione pubblica per spiegare le ragioni per cui si torna a votare (oltretutto con la stessa legge, il Rosatellum, responsabile almeno in parte della paralisi). Deciderà il capo dello Stato secondo la sua sensibilità. Ma ieri Grillo ha in pratica ripreso in mano la leadership del movimento e lo ha schierato all’opposizione di qualsiasi formula dell’ultim’ora. Aver rimesso al centro il referendum sull’euro (peraltro impraticabile, stando alla Costituzione) ha l’ovvio significato di affossare la linea in apparenza conciliante di Di Maio, ispirata negli ultimi mesi dal Quirinale. Ora è chiaro a tutti che i Cinque Stelle non voteranno la fiducia al governo tecnico “di tregua”, che avrà un inevitabile profilo europeista. Di conseguenza, se il partito di maggioranza relativa non sostiene lo sforzo del capo dello Stato, è evidente che l’esecutivo tecnico non è più neutrale e perde la ragion d’essere. Ma cosa c’è oltre il governo “del presidente”, concepito da Mattarella come ultima spiaggia per affrontare le urgenze economiche (l’aumento dell’Iva, il bilancio, la legge di stabilità, l’equilibrio dei conti)? C’è solo il voto, piaccia o non piaccia. Nella speranza, peraltro vaga, che si riesca almeno a evitare l’esercizio provvisorio.

Questo è il triste epilogo della legislatura mai nata, che rischia di morire senza che nessun esponente politico fra quelli emersi il 4 marzo abbia mai avuto un incarico o pre-incarico. E anche questo è un dettaglio non trascurabile. Per la verità ieri Matteo Salvini ha riproposto in extremis l’ipotesi di un governo politico centrodestra-Cinque Stelle. Ipotesi tutt’altro che originale e tuttavia arricchita da due brandelli di novità: primo, il limite temporale di tale esecutivo fissato alla fine dell’anno; secondo, la conferma che non esiste una pregiudiziale leghista su Palazzo Chigi: basta che l’incaricato rientri nel perimetro del centrodestra, la coalizione che ha avuto il 37 per cento. Una mossa astuta, ma solo tattica. Del resto, il primo a non credere a un governo di tutto il centrodestra con il M5S è proprio il capo leghista. La cui strategia è sempre la stessa: tenersi stretto Berlusconi e intanto svuotare Forza Italia, così da ritrovarsi dopo le prossime elezioni – comunque vicine – titolare di un 40-42 per cento complessivo. Ma c’è di più. Salvini non può seguire i 5S nella scomposta pretesa di ottenere subito il voto anticipato. Nulla di quello che fa Di Maio, specie dopo il ritorno di Grillo, può piacere al leader della Lega. Di fatto la campagna elettorale è ricominciata. O forse non è mai finita.