La Grecia goethiana di Snell: torna un classico poetico e inattuale

Dobbiamo alla cura scientifica di Roberto Andreotti, alla revisione linguistica di Marta Rosso e alle edizioni LUISS, un nuovo Bruno Snell. Si tratta della Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen (Amburgo 1946), già tradotta da Einaudi, la prima volta nel 1951, e così ristampata fino a oggi, con il titolo La cultura greca e le origini del pensiero europeo. L’edizione LUISS conserva, da un lato, come sottotitolo, la soluzione einaudiana, che infatti era ormai diventata, dopo settant’anni, un’indelebile marca di riconoscibilità per la memoria del lettore italiano (o almeno del lettore italiano cui è precluso il testo tedesco); ma, dall’altro, ripristina il titolo originale: La scoperta dello spirito La cultura greca e le origini del pensiero europeo (prefazione di R. Andreotti, revisione linguistica di M. Rosso, Luiss University Press, pp. 500, e 35,00). La reintegrazione del titolo tedesco, La scoperta dello spirito, dopo una circolazione e una ricezione estese tra il nostro secolo e quello scorso, è il risultato di una scelta intellettuale specifica e ponderata. Restituire la formula originale, «scoperta dello spirito», ha un effetto distanziante molto forte, che colloca il libro nel fuori tempo del classico e dell’inattuale: del «classico» nel senso di classico della critica, allo stesso modo, per esempio, della Mimesis di Auerbach; dell’«inattuale» nel senso di completamente alieno al quadro ideologico e culturale del momento.

Tempismo contre-temps
Su questo binomio «classico-inattuale» è necessario fermarsi a riflettere. Intanto perché un classico non è necessariamente inattuale: i barthesiani Frammenti di un discorso amoroso sono classici, sì, ma non certamente inattuali (né mai potranno esserlo). Poi, perché l’inattualità della Scoperta dello spirito va misurata in due tempi: lo snodo 1947-1951, quando prende avvio e si conclude la vicenda della traduzione italiana, e l’odierno 2021, quando il volume viene rieditato con molta attenzione e con decisive innovazioni. Certo, in questi nostri tempi di Call-out Culture e di Cancel Culture, l’espressione «scoperta dello spirito» associata a «cultura greca» e soprattutto a «origini del pensiero europeo», potrebbe suonare come un’odiosa e reazionaria provocazione a molti attivisti in varie parti del globo – e il format Cancel Culture prolifera sempre di più in Europa, anche all’interno dell’istituzione universitaria nostrana per analogia con quanto accade nelle università americane… Ciò dice, a mio avviso, che la nuova edizione LUISS dà prova del migliore tempismo possibile: il tempismo del contre-temps. Ma di questo tornerò brevemente a dire dopo.
Il quadro ideologico di quegli anni in cui il libro di Snell fu giudicato degno della traduzione italiana dalla rosa dei lettori e valutatori einaudiani era affatto diverso sul piano squisitamente qualitativo prima ancora che nel merito del contesto storico e politico: voglio dire che un conto è l’ideologia come disciplina del pensiero e di pensiero, radicata nei conflitti e nelle trasformazioni strutturali e immateriali della storia; altro conto è l’ideologia che nasce come claim comunitario per diventare, in un batter di ciglio, common credo generale e generico, cioè pura buona opinone. L’introduzione di Roberto Andreotti, Avventura e ricezione in Italia della Entdeckung des Geistes di Bruno Snell, frutto evidente di un lungo, accurato e articolato studio preparatorio che si rivela tanto nell’impianto argomentativo quanto nell’uso del materiale documentario, fa chiarezza – chiarezza necessaria, direi, e attesa – sulla complicata storia del titolo, o meglio, tutta la chiarezza che si poteva fare al proposito: perché, in effetti, non sappiamo chi sia l’artefice della titolatura italiana del 1951. Forse Renato Solmi? Che ruolo ebbero, nel caso, Pavese e Untersteiner? E Cantimori, e lo stesso Giulio Einaudi? L’identità del propositore è comunque, come lo stesso Andreotti mostra, meno determinante della questione di fondo. La parola Spirito, certo, era invisa a una redazione marxista (specialmente, forse, a Cantimori): né si trattava solo d’una questione intellettuale, perché erano in gioco anche una memoria e un’esperienza vivissime, che non hanno bisogno, in questa sede, di illustrazione. Ma la domanda che il saggio di Roberto Andreotti solleva nella mente del lettore è: l’avversione einaudiana al fantasma dell’hegelismo e dell’idealismo storicistico (impossibile non pensare, nel caso italiano, alla riformulazione attualista di Gentile) coglieva davvero, seppur per via idiosincratica, la cifra teorica del libro di Snell? Ne coglieva forse autenticamente il quadro concettuale di riferimento? È un’opera hegeliana La scoperta dello spirito?

L’entusiasmo di Pavese
Roberto Andreotti richiama la nostra attenzione su due punti fondamentali: il giudizio entusiastico di Pavese, che evidenzia un unico difetto: «non è un libro per il popolo» – così invocando, forse con qualche ironia, il convitato di pietra della coscienza di classe. L’altro punto è una chiara contraddizione interna alla recensione di Solmi apparsa su «Paideia» nel 1950: da un lato, Solmi rimprovera a Snell la scarsa contestualizzazione storica e materiale di cui invece – dice Solmi – seppe dare prova Jaeger; dall’altro, osserva che, nell’analisi di Snell «le opere più note della letteratura greca assumono un’aria unheimlich, preoccupante e un tantino barbarica, quasi fossero i prodotti di una mentalità intermedia fra la mentalità primitiva e la nostra». Ora, se Snell, per scelta, non era certamente – e fortunatamente – uno jaegeriano (per inciso: sul Terzo Umanesimo di Jaeger e sulle sue sconcertanti falsificazioni ideologiche optime scripserunt Diego Lanza e Mario Vegetti su «Il Pensiero» nel 1972), per altro verso, imputargli il fatto di rendere unheimlich «le opere più note della letteratura greca», significa riconoscere che c’è qualcosa di intellettualmente forte e efficace nel libro del filologo tedesco.
Qual è la ragione di quest’efficacia? Restituire la non familiarità di un oggetto culturale è il lavoro fondamentale dell’antropologia. Sicché La scoperta dello spirito sortisce un effetto antropologico sul lettore. Ma La scoperta dello spirito non è un’indagine antropologica… e allora come si produce in Snell questo risultato? Lo strumento di ricerca fondamentale cui Snell si affida è costituito dallo studio del modo in cui il linguaggio risponde alle esigenze della concettualizzazione. Sul filo di un saggio di Diego Lanza, Bruno Snell: filologia e storia dello Spirito (1970), che è uno dei contributi più rilevanti sulla posizione di Snell nella history of classical scholarship, Andreotti sottolinea e approfondisce il rapporto che il filologo tedesco intrattenne con il neokantianesimo di Cassirer. È attraverso Cassirer che Snell può concepire l’attività dello «spirito» come lavoro di categorizzazione linguistica; e il celebre saggio L’uomo nella concezione di Omero che apre il libro, e così tanta proiezione ebbe poi sugli studi di letterature moderne, deve essere inteso nel suo impianto teorico attraverso la mediazione di Cassirer. In tale prospettiva, Geist («spirito») vale Denken, cioè «pensiero», anche nel senso di «modo di pensare» o «mentalità». E il sottotitolo dell’edizione tedesca recita infatti Studi sull’origine del pensiero europeo presso i Greci. Possiamo allora concludere, parallelamente, che Entdeckung, «scoperta», vale Entstehung, «origine», e che l’origine sta appunto nella formazione, nella lessicalizzazione e nell’evoluzione semantica del concetto.

Ispirazione cassireriana
Sappiamo poi, come Andreotti osserva, quali possano essere i limiti di questa impostazione: il principio che a una nozione corrisponda necessariamente una parola è fallace. Quell’effetto unheimlich, straniante e perturbante, di cui parlava Renato Solmi, è da ascrivere quindi all’archeologia linguistico-semantica di ispirazione cassireriana che scava e scopre o ri-scopre un sottosuolo o un altrove dimenticato all’interno del nostro modo di pensare? Ed è così che Denken spiega e risolve definitivamente il più enigmatico e problematico Geist? Senza mai forzare o torcere l’argomentazione, e nel più assoluto rigore documentario, l’analisi di Roberto Andreotti apre e stimola una serie di interrogativi che ci restituiscono il gusto di ripensare oggi Snell e il suo mondo. Già… ma qual era il mondo di Snell? Quello che gli rimproveravano i marxisti einaudiani?
A chi scrive, sul filo delle domande sollevate dall’introduzione al volume, il «mondo» di Snell sembra essere, sempre di più, un aldilà della memoria, un Ade memoriale, se così si può dire, che si frappone tra la Grecia degli Antichi e l’Europa contemporanea – e, nell’Europa contemporanea, la Germania contemporanea, e cioè la Germania nazista e della guerra, la Germania in cui (al di là delle aggiunte e degli interventi durati fino al 1974) Snell elabora i capitoli della Scoperta dello spirito, nonché, nel contesto di quella Germania, il mestiere accademico del filologo classico nel quadro dell’istituzione universitaria tedesca. Questo «aldilà», credo, è la Germania di Goethe e della generazione goethiana di drammaturghi, poeti, estetologi, linguisti-folkloristi – di Schiller, di Herder, di Schlegel, di Hölderlin, dei fratelli Grimm, tra gli altri: è questa l’Arcadia «interiore» che vive segretamente custodita nel celebre capitolo sull’Arcadia classica, pubblicato la prima volta nel 1944: Arkadien, die Entdeckung einer geistigen LandschaftArcadia, la scoperta di un paesaggio spirituale – si presti attenzione alle scelte lessicali del titolo di capitolo che si riflettono prismaticamente sul titolo del volume. L’Europa stessa di Snell è quel miraggio di Europa da cui Goethe immaginava sorgere l’alba d’una nascente e futura Weltliteratur… Un’Europa e una Germania perdute nel presente, tra le due guerre e nelle due guerre, che potevano essere guardate solo attraverso il filtro di una Grecia goethiana. L’idea goethiana di letteratura e di cultura – dal teatro, alla poesia, alla scienza, alla critica, alla fiaba – innerva tutta La scoperta dello spirito (e non solo: si pensi soltanto allo splendido Noi e gli antichi Greci, disponibile oggi nel catalogo Pàtron, nella traduzione di Marilena Amerise, per la cura di Camillo Neri, Giovanna Alvoni e Valentina Garulli).
Un solo necessario esempio, fra i diversi possibili, per il lettore: il capitolo II, La fede negli dèi olimpi. Questo capitolo, uno tra i più affascinanti e allusivi del libro di Snell, inizia in modo del tutto inaspettato: con una fiaba, raccolta dai fratelli Grimm, la fiaba dello «sciocco che non sapeva cosa fosse la pelle d’oca» ovvero che non sapeva che cosa fosse la paura. Una fiaba che ebbe una risonanza molto grande nella letteratura tedesca dell’Ottocento e che molto piacque proprio a Goethe (come poi a Wagner, che riconobbe nello sciocco intrepido la figura di Siegfrid). Ed ecco arrivare, dunque, dopo l’indugio sulla trama fiabesca, la domanda dello studioso: «Come impara l’uomo, come imparano i popoli a distinguere la realtà dai fantasmi?». Basta allora ricordarsi della Dedica premessa al Faust e riconosceremo subito il clima familiare da cui l’interrogazione di Snell sugli dèi greci scaturisce. E così ancora capiremo come la lingua rocaille parlata da Snell nel capitolo dedicato a Callimaco (il «giocoso», lo «scherzoso» ecc.) non sia eloquenza fanée; capiremo perché nella trattazione sulla metafora Snell chiami in causa le classificazioni della natura organica (il Goethe naturalista…) e così via e così via… Geist, «spirito», è parola che rimanda alla Heimat «spirituale» goethiana, non all’idealismo hegeliano: Geist, per Snell, è parola poetica, non tecnicismo retorico-filosofico. Geist è «parola sacra» faustiana, di Faust e del suo buon diavolo, Mefistofele, il Pensatore. Del resto, non è forse il Faust un’avventura alla «scoperta dello spirito»?

L’arte della critica
Qui sta l’inattualità di Bruno Snell: inattualità nel 1946, quando uscì in quella Germania, nel ’51 quando fu tradotto da Einaudi, e tanto più ora, nel 2021, in tempi di Cancel Culture, quando, allentatosi, in seno a quella che sino a ieri avremmo chiamato «la Società», l’esercizio al bien raisonner, si prende a far confusione tra un giusto claim nato nell’esperienza dell’oppressione e dell’esclusione e il lavoro – perché di «lavoro» si tratta – della poesia, della scrittura, dell’arte e della critica. Proprio questo Snell «inattuale», lo Snell «storico del pensiero» che filologi come Timpanaro non capirono e non stimarono al pari dello Snell editore teubneriano, è un nuovo Snell che il progetto della riedizione curata da Roberto Andreotti ci spinge a pensare: e ciò costituisce una acquisizione di rilievo per gli studi di letteratura e filologia.
Last but not least, è fondamentale avvertire il lettore dell’importante revisione linguistica condotta da Marta Rosso sulla traduzione di Vera Degli Alberti, già rivista a suo tempo da Anna Solmi, poiché, in un libro come la Entdeckung, che è anche, se non soprattutto, libro poetico, opera di «pensiero poetante», la lingua è quasi tutto. Per prima cosa va detto che l’edizione LUISS integra, nella «vecchia» traduzione Degli Alberti-Solmi, le aggiunte e le cassature apportate dall’autore in occasione dell’edizione gottinghese del 1975 (da quest’ultima è tratta anche l’importante Postfazione metodologica del ’74, fino a ora inedita in Italia). Tali addizioni, che in più di un caso si estendono a veri e propri paragrafi (e ve ne sono, ad esempio, nei capitoli I, V e VII), sono state tradotte direttamente da Marta Rosso. Inoltre, i capitoli IX, Le origini della coscienza storica, e XIII, Il simbolo della via, completamente riscritti da Snell per l’edizione gottinghese, sono stati, a loro volta, tradotti qui per la prima volta: e si tratta di importanti riscritture, sul piano del metodo, perché, ad esempio, Il simbolo della via si ispira tutto al concetto warburghiano di Nachleben. Sul piano specificamente lessicale e semantico, poi, Marta Rosso dà prova di attenzione puntuale sostenuta da una lucida consapevolezza delle questioni teoriche sottese.
Due esempi: nel capitolo XI, Similitudine, paragone, metafora, analogia (p. 329), Rosso ripristina giustamente «spirito illuminato» (Dem aufgeklärten Geist…) in luogo dell’einaudiano «mente razionale» – errore notevole, dovuto alla non comprensione del mondo snelliano di cui sopra, che sfigura il senso di una formula concettuale chiave (molto goethiana) in tutto il libro: «Per lo spirito illuminato il mito è innaturale». Nel capitolo XIII, il già citato Simbolo della via, la traduttrice si rivela pienamente accorta del complesso gioco di relazione tra l’intraducibile polisemia del greco noos («mente», «pensiero», «intelligenza» ecc.) e la pertinentizzazione snelliana Einsicht (e del relativo verbo einsehen, che corrisponderebbe perfettamente all’inglese insight), dove a contare è, appunto, la metafora della penetrazione visiva, laddove, invece, la versione einaudiana disperde il gioco stesso in un ventaglio pseudo-sinonimico un po’ confuso («comprensione», «intelligenza», «giudizio», «giudizio umano», «pensiero», «coscienza»). Tanto basta – ma si potrebbe proseguire in questa recensio testuale – ad avvisare il lettore interessato a Bruno Snell, sia studioso o più generalmente colto, che l’edizione della Entdeckung di cui oggi possiamo disporre è uno strumento di lavoro fondamentale per lo specialista, e per il pubblico tutto: un altro, nuovo Snell da tornare a meditare e gustare. Con nostalgia, forse.

 

 

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